Ho scelto di lavorare all’ombra del camino

Arrivano alla spicciolata la mattina presto, imbacuccati nelle loro giacche a vento in questo gennaio nemmeno così freddo per ora, anche se qui in Polonia le strade sono già imbiancate. Passano dal retro, superano un cancello con una sbarra abbassata per l’entrata degli autoveicoli e si dirigono verso gli edifici in mattoni rossi. Camminando, sfilano accanto a una tozza ciminiera: è il crematorio di una camera a gas. Qualche metro più avanti la porta di ingresso agli uffici: sono i Blocchi di un lager e loro sono le persone che hanno scelto di lavorare “all’ombra del camino” ad Auschwitz, in quello che fu il campo di concentramento diventato simbolo in tutto il mondo dello sterminio perpetrato dai nazisti e della Shoah.

Ogni giorno circa 300 persone calcano i marciapiedi di Oswiecim (il nome polacco della cittadina che durante l’occupazione i nazisti trasformarono in “Auschwitz”) diretti al Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau, per permettere ai visitatori di fare il loro ingresso in quello che dal 1979 è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Tra coloro che lavorano all’interno dell’ex campo di concentramento si alternano poco meno di 300 guide-educatori (ogni giorno ce ne sono a disposizione circa 100) che fanno da ponte tra la Storia narrata dai luoghi e dai reperti conservati qui e le storie dei sopravvissuti che ancora tornano in questi posti. Guide che, con i racconti e le spiegazioni, svolgono a loro volta un lavoro di testimonianza, inquadrando il contesto e tramandando la Memoria della Shoah alle future generazioni. “Perché anche i luoghi sono delle fonti, ma ovviamente non parlano da soli”, ci spiega Jadwiga Pinderska-Lech, responsabile delle pubblicazioni del Museo, che accompagna anche i gruppi italiani. “Se uno entra per esempio a Birkenau, vede i binari, vede i chilometri della recinzione, tante baracche, le macerie delle camere a gas… ma se viene impreparato capisce pochissime cose. La possibilità di ritrovarsi qua e poter riflettere qualche minuto secondo me è molto importante e spinge le persone a cercare di più, a leggere di più e a conoscere meglio la storia di Auschwitz”.

Il giorno in cui realizziamo le interviste è in corso un esame che porterà il numero totale delle guide disponibili presso il Museo da 270 a 300. I candidati vengono scelti in base ai loro studi, poi sostengono tre prove (un test a scelta multipla strettamente storico, un colloquio e una verifica pratica davanti a una commissione). Se promossi, dopo aver ottenuto il permesso del Presidente della Regione, possono cominciare a lavorare. La loro denominazione esatta da qualche tempo non è più “guida”, ma “educatore”. Al Museo di Auschwitz-Birkenau le visite guidate sono obbligatorie per tutti i gruppi organizzati, la grande maggioranza tra coloro che arrivano in pullman ai tornelli di ingresso. La tradizione di accompagnare i visitatori all’interno del campo è di lunga data, è cominciata nel 1947: “Le prime guide qui erano proprio i sopravvissuti – spiega Andrzej Kacorzyk, vicedirettore del Museo – tante persone che ora lo fanno sono legate ‘emozionalmente’ a questa consuetudine, perché sono figli o nipoti degli ex deportati o di quelli che lavoravano qui negli anni ’40-’50-’60”. Molti tra gli educatori hanno scelto di essere qui per vicende legate alla propria storia, come Malgorzata Domzal (che gli italiani che accompagna chiamano Margherita): “Metà della mia famiglia è stata uccisa qua, anche mio nonno, fucilato al Muro della Morte perché membro della resistenza”. Tutti si sentono investiti della missione e del dovere di trasmettere la Memoria per far sì che nulla sia dimenticato: “Mi sento come obbligata a gridare ad alta voce tutto quello che è successo”, spiega ancora Margherita.

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Le guide ad Auschwitz offrono i tour in 18 lingue. “Non introdurremo mai le audioguide – assicura Pawel Sawicki, dell’ufficio stampa – perché il ruolo dell’educatore è importantissimo per noi: integra le aspettative dei visitatori alle loro emozioni; bisogna saper rispondere alle domande storiche, ma anche adattare la narrazione al livello emotivo del singolo gruppo”. Per il Museo poter parlare ai viaggiatori nella loro lingua è molto importante, in più ogni educatore viene preparato anche sulle specificità nazionali, frequentando un corso obbligatorio dove impara le nozioni che riguardano la storia delle deportazioni dei singoli Stati.
Anche grazie al legame linguistico capita spesso che le guide intreccino un rapporto molto stretto con i sopravvissuti di un determinato Paese: li vedono ogni anno alla cerimonia del 27 gennaio (anniversario della liberazione del campo nel 1945 da parte dell’Armata Rossa), li accompagnano nel giro quando sono in viaggio con i Treni della Memoria o con i gruppi organizzati dalle scuole o altri enti, li accolgono quando tornano da soli nell’ex lager.

Ogni educatore con cui abbiamo parlato attribuisce un grande valore all’incontro con i sopravvissuti: “un privilegio”, “un onore” sono le parole più usate per descrivere il “passaggio del testimone” che inevitabilmente avviene tra chi ogni giorno è stato testimone dell’orrore e chi ogni giorno ha deciso di raccontarlo. Quando nel campo fa il suo ingresso un ex deportato, subito viene annunciato, accolto, abbracciato e in un certo senso “coccolato”: le guide li ricordano con occhi lucidi quando non ci sono più e arricchiscono continuamente il loro racconto storico con le testimonianze dirette che hanno ascoltato da loro. “Secondo noi ci deve essere una specie di legame stretto, quasi di collaborazione tra la narrazione degli educatori e quella dei sopravvissuti”, dice Andrzej Kacorzyk. Le testimonianze (anche quelle scritte o registrate conservate negli archivi), la preparazione didattica di chi accompagna i visitatori e la tutela dell’autenticità del luogo sono le tre linee guida del Museo oggi.

Dalla sua apertura con la prima mostra, il 14 giugno del 1947, ci si interrogò a lungo sul fatto se dovesse “solo” ricostruire il passato o se dovesse anche chiarire e spiegare i meccanismi principali del sistema di sterminio. Alcuni ritenevano che l’ex campo dovesse rimanere soprattutto un cimitero, altri un luogo della memoria, un monumento, altri ancora un istituto del ricordo, un centro di educazione e di studio sul destino delle persone uccise. In realtà il Museo svolge oggi contemporaneamente tutte queste funzioni. Ad Aushwitz I infatti sono state organizzate nei Blocchi le mostre permanenti che descrivono le due funzioni principali dell’ex lager: campo di concentramento per prigionieri di diverse nazionalità e maggior centro di sterminio di massa degli ebrei europei. Negli edifici in mattoni rossi si trovano anche i Memoriali nazionali, esposizioni volute dagli ex deportati, il cui compito è la diffusione delle informazioni sull’occupazione nazista nei Paesi dai quali provenivano i prigionieri e sulla loro sorte. Si è deciso invece di lasciare intatto il terreno di Birkenau (distante circa 3 km), dove fu annientata la maggioranza delle vittime di Auschwitz; l’unica mostra ora presente fu inaugurata nel 2001 e si trova nell’edificio della cosiddetta Sauna.

Durante tutta la sua storia il Museo è stato visitato da oltre 30 milioni di persone provenienti da tutto il mondo e a partire dagli anni ’90 il numero di accessi è in crescita costante. Oltre 1.720.000 sono entrate al memoriale di Auschwitz nel 2015, 70mo anniversario dalla liberazione del campo. I primi dieci paesi da cui provengono i visitatori sono: Polonia (425.000), Regno Unito (220.000), Stati Uniti (141.000), Germania (93.000), Italia (76.000), Spagna (68.000 ), Israele (61 mila), Francia (57.000), Repubblica Ceca (47.000) e Paesi Bassi (43.000). “Secondo me negli ultimi 10 anni la conoscenza del tema della Shoah è aumentata”, assicura Jadwiga Pinderska-Lech e le fanno eco in molti: “Negli ultimi anni vedo che le persone sono veramente ben preparate – racconta Tomasz Michaldo, responsabile della formazione degli educatori e a sua volta guida – . Quando ho cominciato, parlando l’ebraico, arrivavano qui gli israeliani ‘preparati’ solo dai loro parenti, dai sopravvissuti. Mentre negli ultimi anni vedo che le persone conoscono bene la storia”. Tutte le guide concordano che l’aumento di interesse, le solide basi storiche e il bagaglio culturale siano appannaggio soprattutto dei ragazzi: “Sono più sensibili secondo me, più competenti e più attenti. La preparazione dei gruppi, soprattutto delle scolaresche, cresce”, dice Marek Zieciak, che accompagna gli italiani. Con l’aumento del numero di visitatori negli ultimi anni, il Museo si è attrezzato e ha cambiato alcune modalità pratiche di accesso: per esempio, il gruppo che segue una guida non può essere composto da più di 30 persone e dal gennaio del 2015 (con l’introduzione all’ingresso dei metal detector) è stato fissato un numero limite di persone che possono essere presenti contemporaneamente nel campo di Auschwitz I. Pawel Sawicki ammette che quello dell’affollamento delle mostre è l’unica critica che il Museo ha ricevuto in passato. Chi decide di venire di persona ad Auschwitz infatti ha bisogno di tempo per affrontare quello che vede e che sente e la capacità di una guida sta anche nel saper accompagnare le persone attraverso le sale cercando di bilanciare il rigore della narrazione storica con le emozioni che sente nascere, che in una visita di questo tipo sono sempre presenti, se non prevalenti.

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E gli educatori? Come possono ogni giorno entrare in quegli edifici, dare uno sguardo ai capelli, alle scarpe, alle foto, vedere le lacrime dei visitatori e assistere al loro sgomento? Come riescono a non farsi sopraffare o all’opposto a non trasformare del tutto questo lavoro in un lavoro di routine? Sebbene non tutti facciano esclusivamente le guide, per almeno 1/3 di loro si tratta dell’unica occupazione. “Da una parte deve diventare un’abitudine per non impazzire, ma è anche una cosa – diciamo – pericolosa perché si perde la sensibilità. Io grazie a Dio riesco a trovare un certo equilibrio: ho una moglie, quattro figli e quando ritorno a casa entro in un’altra realtà”, racconta Marek Zieciak. Di sicuro quello che fanno influisce sulla loro vita in modo particolare: dagli amici che chiedono le ragioni della loro scelta, all’ambito familiare, che tutti cercano di proteggere e in qualche modo tenere a distanza. “Quando posso cerco di trovare del tempo libero e forse questo mi salva dalla routine ma anche dalle emozioni: mi prendo del tempo per calmare la commozione, perché senza dubbio devo dire che non è un lavoro facile. Io penso che ogni guida del Museo abbia problemi con l’emotività, così durante la notte succede che molto spesso facciamo sogni difficili, sogni molto brutti”, confessa Margherita.

Nonostante il tempo e i giorni passati nel lager però ognuno di loro sa precisamente qual è il luogo, l’oggetto di Auschwitz cui non è mai riuscito ad abituarsi: il simbolo dell’orrore, qualcosa davanti a cui voltare la testa, un posto dove non tornare. Per molti sono gli oggetti strappati ai bambini, per altri le protesi, i capelli, i Blocchi della Morte. Ed è proprio qui che gli educatori fanno un passo indietro, smettono di “guidare”, si astengono, si preservano. “Di solito non entro lì, non faccio commenti”, “Ci sono posti dove assolutamente non vado e rimango sempre a una certa distanza”, “Non mi avvicino a guardare”, “Evito proprio di raccontare”. dicono. 300 persone hanno scelto di lavorare “all’ombra del camino” perché sanno che quando anche l’ultimo ex deportato ci avrà lasciato, non resteranno che loro ad accompagnarci attraverso la Storia per preservare la Memoria di quel che è stato. Una “missione” che affrontano ogni giorno con determinazione e orgoglio, ma per non perdere l’equilibrio hanno anche una soglia che non oltrepassano mai.

Guida al Museo, 12 tappe tra Storia e Memoria

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