Santa Teresa di Los Andes

Juanita Fernàndez Solar era nata il 13 luglio 1900, in una numerosa e ricca famiglia dell’aristocrazia cilena. Sin da piccola cominciò a esperimentare la drammaticità della nostra condizione umana: da un lato desideri di cielo e immersioni nelle mistiche profondità (i bambini sanno “immergersi” in Dio), dall’altro un carattere timido che, se si sente trascurato, cade in preda all’irascibilità, a «rabbiette feroci», a «svogliatezze», e a una certa «arroganza» che del resto ha nel sangue. Più tardi confesserà che sentiva di poter diventare – se non si fosse frenata – «un piccolo mostro».

Ancora bambina Juana si propose di non lasciar mai passare la giornata senza chiedere perdono a coloro che le accadeva di offendere o disgustare. Aveva 7 anni e si preparava alla prima confessione. Ciò che imparò nel catechismo, sul perdono da chiedere e da gustare, lo applicò anche nei litigi quotidiani con i fratellini, o nelle disobbedienze verso la mamma. E anche un’altra cosa aveva offerto a Gesù, forse ancora più difficile, perché più «fisica»: gli aveva promesso di non guardarsi allo specchio, perché voleva vincere la vanità per suo amore.

Dio si commuove talmente di questi piccoli sforzi, che inizia a corteggiare la sua creatura. «Gesù cominciò a prendere il mio cuore per Sé poco dopo il terremoto del 1906», scrive Juanita nel diario iniziato a 15 anni, facendo risalire la sua mistica avventura d’amore ai 6 anni di età, al primo svegliarsi della ragione, in un contesto di sofferenze.

Poi ci fu subito l’azione preparatoria, materna, della Vergine Santa: «Più o meno a sette anni nacque nell’anima mia una grandissima devozione alla mia Madre, la SS. Vergine… Le raccontavo tutto quello che mi avveniva, e Lei mi parlava. Sentivo la sua voce dentro di me, assai chiaramente e distintamente. Ella mi consigliava e mi diceva tutto quello che dovevo fare per piacere a Nostro Signore. Io credevo che ciò fosse del tutto normale e mai mi avvenne di riferire ad altri quello che la SS. Vergine mi diceva…» (Lettera 87). È sorprendente che Dio abbia voluto donar tali fenomeni mistici a una piccina di sette anni, anche se essi avvennero così normalmente che Juanita restò a lungo persuasa che tutti facessero le sue stesse esperienze. Era convinta che tutto ciò fosse normale perché aveva a lungo osservato il vecchio nonno che se ne stava giornate intere con la corona in mano a recitare il suo rosario (a parlare con la Vergine, dunque!) e che proprio in quell’anno moriva come un santo.

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Il desiderio di ricevere l’Eucaristia si faceva per Juanita sempre più intenso, nonostante ella sapesse che non l’avrebbe potuta ricevere prima d’aver compiuto gli undici anni, secondo l’uso del tempo.

«Mi preparai per un anno. La Vergine mi aiutò a purificarmi il cuore da ogni imperfezione e, nel mese del Sacro Cuore, cambiai completamente il mio carattere» (Diario, V).

«Nostro Signore mi parlava dopo la comunione. Mi diceva cose che io non sospettavo e, quando lo interrogavo, mi svelava cose che stavano per accadere, e accadevano davvero. Io però continuavo a credere che succedeva lo stesso a tutti coloro che facevano la comunione…» (Lettera 87).

«Non riuscirei ad esprimere quello che passò tra Gesù e la mia anima. Gli chiesi mille volte di prendermi e sentivo per la prima volta la sua voce amata. Ah, Gesù, io ti amo e ti adoro!» (Diario, VI).

L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, la bambina si spinse fino a chiedere a Gesù di poterlo raggiungere in cielo per quella data. Da quel giorno in poi, per quattro anni successivi, al giungere di quella festa mariana, Juanita si ammalava gravemente. In quei tempi di malattia il rapporto tra lei e il suo Dio si approfondiva in maniera straordinaria, e sembrava che Lui approfittasse di tutte le circostanze come, ad esempio, della sua paura a restare sola. Ecco quel che accadde un giorno in cui, all’età di 14 anni, non poté ricevere la desideratissima visita della sorella:

«Mi misi a piangere. Ed ecco che i miei occhi si posarono sul quadro del Sacro Cuore, e sentii una voce molto dolce che mi diceva: “Come, Juanita, io me ne sto solo nel tabernacolo per amor tuo, e tu non riesci a star sola un momento?”. Ed egli cominciò a parlarmi. E io stavo ore intere ad ascoltarlo, tanto che mi piaceva molto restare sola. E Lui mi insegnava come dovevo soffrire, senza lamentarmi, e come restare intimamente unita a Lui. Mi disse anzi che mi voleva per Lui e che desiderava che io mi facessi carmelitana. Ah, è inimmaginabile quello che Dio faceva alla mia anima. In quel tempo io non vivevo in me stessa. Era Lui che viveva in me… Facevo tutto per Gesù e con Gesù. Nostro Signore mi indicò come fine la santità, spiegandomi che l’avrei raggiunta facendo il meglio che potevo» (Diario VII).

Dovette sottoporsi a una rischiosa operazione e quando vide arrivare l’équipe dei chirurghi si spaventò: «Mi sembravano macellai» – dirà poi – e si lasciò addormentare credendo che non si sarebbe più svegliata. Ma prima baciò il suo crocifisso, dicendogli: «Tra poco ci vedremo faccia a faccia. Addio». Il giorno di capodanno, il dottore, ammirato di quella sua giovane e coraggiosa paziente, le inviò in dono delle orchidee. Il simpatico commento di Juana fu: «Era la prima volta che mi regalavano dei fiori. E li mandai a Gesù. Questo sacrificio mi costò molto. Però lo feci!» (Diario, VIII). Pur nelle sue altezze mistiche, restava una ragazza, e privarsi delle sue prime orchidee le costava, anche se si trattava di regalarle al suo divino Amato!

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La convalescenza avvenne nella sua amata tenuta di Chacabuco. Qui, incontrò un giorno, casualmente un bimbo di otto anni, affamato e coperto di stracci: se ne prese cura e il piccolo tornava sempre come se avesse finalmente trovato un focolare. In seguito il piccolo condusse la bella signorina nella sua misera catapecchia per farle conoscere la mamma: una donna poverissima, abbandonata dal marito ubriacone e dai figli più grandi, che non riusciva nemmeno a mantenere quell’ultimo ragazzino. Non l’aveva nemmeno fatto battezzare. Allora Juana gli adattò alcuni vestiti dei suoi fratelli (i quali subito chiamarono il bimbo Juanito), poi mise all’asta tra i cugini il suo bell’orologio svizzero per potergli comprare un paio di scarpe, e prese ad usare tutti i suoi risparmi per le necessità del bambino. Lo ospitava ogni giorno a pranzo e gli riservava abitualmente anche la sua porzione di dolce affinché il piccolo si rimettesse più presto in salute. Sacrificò per lui tutte le vacanze di fine-settimana per prepararlo al battesimo, poi alla prima comunione e alla cresima. Riuscì perfino a mandarlo a scuola. «Vedeva in lui tutti i bambini poveri del mondo», diranno poi le sue amiche.

«Oggi compio 15 anni. Quindici anni! L’età che tutti vorrebbero avere: i bambini per essere giudicati grandi, gli anziani e quelli che hanno venticinque anni perché è l’età più felice… Quindici anni sono per una ragazza l’età più pericolosa, l’ingresso nel mare tempestoso del mondo. Ma Gesù ha preso il comando della mia barchetta… Mi ha conservata solitaria per Lui» (Diario, XV). In cuore ella custodisce l’ideale del Carmelo, e tuttavia non sopporta di star lontana da casa e dall’ambiente familiare: quando i genitori decidono di farle continuare gli studi come interna, in un convitto di Santiago, ella soffre da morire. Ella ha però coscienza che il soggiorno in quel detestato collegio ha, nel segreto disegno di Dio, uno scopo preciso: «Nonostante le mie pene, non posso fare a meno di ringraziare Nostro Signore che mi prepara la strada… Mi chiama a vivere più vicino a Sé, perché mi abitui a vivere lontano dalla mia famiglia, prima di entrare al Carmelo» (Diario, XI). Su questa sua vocazione ella non transige: «Credo che non mi abituerò mai a vivere lontano dalla mia famiglia: mio padre, mia madre, questi esseri che amo tanto!… Ma io devo seguire Gesù fino ai confini del mondo, se Lui lo vuole. In Lui trovo tutto, per Lui lascerò tutto, per andare a nascondermi dietro le grate del Carmelo e vivere solo con Lui. Lui è accanto a me e spesso mi dice: “Amica mia, tanto cara…”» (Ibidem). Intanto sta leggendo la Storia di un’anima di S. Teresa di Lisieux – che in quegli anni cominciava a diffondersi nel mondo – e sente anche lei il fascino di una vita ricca di tante piccole cose offerte per amore.

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Nella festa dell’Immacolata del 1915 Juana decide di far voto di verginità: «Oggi all’età di quindici anni, alla presenza della Santissima Trinità, della Vergine Maria e di tutti i Santi del cielo faccio voto di non volere altro Sposo se non il mio Signore Gesù Cristo, che io amo con tutto il cuore e che voglio servire fino all’ultimo istante della mia vita» (Diario, XV).

Presto intuisce che la sua breve vita sarà tutta intessuta di felicità profonda e di gravi sofferenze: «Non sei tu quella che mi cerca e che vuole rassomigliare a me?» – le aveva detto un giorno Gesù – «Vieni dunque con me e prendi la croce con amore e con gioia!» (Diario, XV). Ed ella aveva subito riconosciuto che era possibile «soffrire con gioia», se era Gesù a chiederlo: «Gesù mi ha detto che vuole che io soffra con allegria. Questo mi costa parecchio, ma basta che Lui lo chieda, che io cerco subito di farlo» (Ibidem). Questa vocazione la colma di un misto di gioia e di dolore. Gioia perché, al solo pensarci si sente invadere da una felicità indescrivibile. Dolore perché gli ostacoli per realizzarla sembrano crescere di giorno in giorno; dall’altro la sua salute sembra farsi ogni giorno più precaria e molti la sconsigliano a intraprendere una strada così austera. Il diffuso malessere fisico si riversava, così, sull’animo e Juanita sembrava cadere in preda alle più laceranti contraddizioni. La ragazza ha solo diciassette anni, ma si esprime – senza saperlo – come i grandi mistici che hanno attraversato le purificazioni più terribili e le più “oscure notti” dello spirito.

13 settembre 1917: «Non so quello che mi succede. E’ una tristezza interiore così grande che mi sento isolata da tutto il mondo. Mi ripugna tutto e tutto mi stanca. Infine ieri, grazie a Dio, ho potuto meditare e sentire devozione e amore: cosa che il Signore non mi dava più da tempo, nemmeno nella Comunione. Infine, questi due mesi di sofferenza sono stati due mesi di Cielo… Ho offerto tutto a Gesù e gli ho chiesto di darmi la sua croce (…). Ho preso la risoluzione di vivere molto allegra esternamente» (Diario, XXXIII).

17 ottobre 1917: «Gesù mio, ti amo. Sono tutta tua. Mi abbandono interamente alla tua divina volontà. Dammi la tua croce, ma dammi anche la forza per portarla. Non mi importa se mi dai l’abbandono del Calvario o la gioia di Nazareth. Mi importa solo di vedere contento Te. Non mi importa di non sentir niente, di essere insensibile come una pietra perché, o mio piccolo Gesù, so che tu sai che io ti amo. Dammi la Croce. Voglio soffrire per Te, ma insegnami a soffrire con amore, con gioia, con umiltà (…). Non desidero di essere felice io, ma che Tu sia felice» (Diario, XXXIV).

Ma alla stessa maniera, e contemporaneamente, descrive Gesù che la guida con forza: «Gesù mi chiede di essere santa. Di fare il mio dovere a perfezione. Il dovere – così mi ha detto – è la croce. E sulla Croce c’è Gesù. Voglio essere crocifissa. Mi ha detto di salvargli le anime. Glielo ho promesso. Mi ha detto anche di consolarlo, perché si sentiva abbandonato. Mi ha attirato sul suo cuore… Mi accorgo che si impadronisce del mio essere. Lo amo» (Ibidem).

Sente il Divino Maestro che la abbraccia, la stringe al cuore, le spiega la vita di povertà, verginità e obbedienza che dovrà vivere in monastero e la prepara ad essa (cfr. Diario, XXXVII).

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Intanto Juanita lotta con ogni energia per raggiungere il suo sospirato poverissimo monastero carmelitano di Los Andes, dove sa che non troverà nemmeno la luce elettrica e l’acqua corrente, ma troverà «il cielo sulla terra» (Lettera 94). Quando finalmente – dopo un fitto scambio di corrispondenza – Juanita riuscì a visitare quel monastero che desiderava con tutta l’anima, raccontò alla Priora tutte le sue vicissitudini interiori e anche i dubbi che a volte la prendevano. Dall’altra parte della grata, la monaca ascoltava quella giovane creatura ardente con stupore: «Mi ha detto – racconterà poi Juana a un’amica – che poteva dubitare di tutte, meno che di me, perché io ero nata carmelitana».

Tra tutte le sante carmelitane ella è la più giovane e, in monastero, non riuscì nemmeno a finire l’anno di noviziato. Tuttavia le fu affidata la missione più difficile, quella da cui volentieri i cristiani rifuggono, perfino quando riflettono teologicamente e tracciano percorsi di spiritualità: la missione di annunciare che amore e sofferenza sono indisgiungibili. Nessuna santa carmelitana ha conosciuto le semplici gioie del mondo, della natura, della famiglia, della giovinezza, dell’amicizia come Juanita. Nessuna ha sofferto come lei nel tempo dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza. Nessuna ha avuto, come lei, così poco tempo per giungere alla vetta del Carmelo e per immedesimarsi in Cristo Crocifisso e Risorto, percorrendo tutta la Salita del Monte e attraversando tutta la Notte Oscura. Il suo percorso è stato quello della Sposa innamorata del Cantico e dell’anima che giunge ad immergersi nella Fiamma viva d’amore: «Contemplo la Trinità dentro la mia anima, come un immenso mare di fuoco e di luce, nel quale, a causa della sua troppa intensità, non posso né penetrare né guardare. Lì vedo la SS. Vergine, gli angeli e i santi. E vedo anche me, miserabile creatura confusa e annientata, davanti alla Divina Maestà e mi unisco alle lodi che tutti le tributano in cielo» (Lettera 66).

In monastero trovò anzitutto gioia, sia per la sua totale appartenenza a Dio sia per l’ambiente semplice, umile, cordiale. Spesso Cristo si mostrava agonizzante agli occhi della sua anima (e a volte anche a quelli del corpo), con le spalle tutte solcate dalle ferite inferte dai nostri peccati, e il sangue che ne sgorgava sembrava impregnare il mondo (Diario, LV). La pena infinita che Juana provava, ai limiti dello svenimento, era poi compensata dal sapere che Gesù era consolato dalla sua presenza amorosa. Allora la preghiera diventava una immersione in Dio, ed ella si sentiva totalmente «perduta nella sorgente dell’Amore» (Lettera 121).

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Esternamente la vita scorreva dolce e semplice e le altre monache la guardavano ammirate dalla sua serena compostezza (qualcuna però ne ebbe anche gelosia). Ma poi l’amore chiedeva una nuova immedesimazione e Juana si ritrovava ad esperimentare non solo i dolori fisici della passione, ma anche le tenebre interiori del Calvario: dubbi sulla presenza eucaristica, dubbi sull’esistenza di Dio, dubbi d’essere preda di inganni diabolici, fino a credersi abbandonata da Gesù e da Lui rifiutata (Diario, LVI; cfr. anche Lettera 116). Poi tornava il sereno.

«Quanto mi sento felice con Colui che solo vive! (…) Lui mi fa comprendere, mi fa vedere cose sconosciute, grandezze mai viste. Non puoi immaginarti il cambiamento che percepisco in me. Egli mi ha trasformata. Egli sta aprendo i veli che lo nascondevano. Mi sembra che Egli diventi ogni giorno più bello, ogni giorno più tenero, ogni giorno più pazzo di me» (Lettera alla madre, 106).

Juanita restò semplice postulante fino all’ottobre del 1919, quando poté finalmente ricevere l’abito e iniziare il noviziato. Ha avuto una premonizione interiore e sa che le restano poche settimane di vita. La crisi comincia il Giovedì Santo del 1920. Ha la febbre altissima, e benché si alternino al suo capezzale almeno 6 medici, non riescono a diagnosticare in tempo che si tratta di tifo. Riceve l’Estrema Unzione e, per appagare il suo sogno, la Priora le concede di emettere i voti religiosi in articulo mortis, anche se non ha ancora completato il noviziato. Così Juana diviene Suor Teresa di Gesù: emette la sua Professione e ne è così felice che vuole ripetere la formula per tre volte, anche se non ha più nemmeno la forza di firmare il testo che ha appena letto.

La sera del venerdì dopo Pasqua, la malata mostrò di essere in preda a grandi angosce, come se l’avvolgessero di nuovo le tenebre del Calvario e di nuovo l’assalisse la tentazione di disperare. Si sentiva abbandonata dal cielo e tremava d’angoscia al pensiero del giudizio di Dio. Ma era quello che aveva chiesto, per poter rassomigliare al suo Crocifisso fino alla fine. Poi venne la pace. Il sorriso tornò sul suo volto e lo sguardo si fissò in un punto preciso, come se Qualcuno fosse finalmente giunto. La udirono esclamare tutta emozionata: «Il mio Sposo!». E quando morì (a 19 anni e nove mesi), la consorelle ebbero l’impressione «che si immergesse in una felicità immensa».

Teresa di Los Andes, prima santa cilena, è stata beatificata a Santiago nel 1987 e canonizzata a Roma nel 1993 da San Giovanni Paolo II. Dal 1990 un annuale pellegrinaggio al suo Santuario – con un percorso di ventisette chilometri distribuito in dodici stazioni – raduna circa centomila giovani.

 

P. Antonio Maria Sicari ocd, Riflessi di Dio – I Santi del Carmelo, OCD, Roma 2009.

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