Santa Teresa Benedetta della Croce

Edith nasce a Breslavia (allora in Germania, attualmente è la città polacca di Wroclaw) nel 1891, undicesima e ultima figlia di una coppia di sposi ebrei. Rimane orfana di padre a due anni e la numerosa famiglia viene guidata con saggezza e forza dalla madre, una donna profondamente religiosa e tenacemente attaccata alla propria tradizione ebraica. Edith è però una bambina indipendente e di intelligenza particolarmente vivace. Verso i quindici anni abbandona la fede in cui è stata educata, perché non le riesce di credere all’esistenza di Dio. Mentre tutta la sua adolescenza si protende nel culto verso la verità (intesa come sviluppo della conoscenza) e verso la difesa della dignità della donna. Frequenta dunque l’università – caso abbastanza raro per le ragazze del suo tempo – tanto che nel 1910 è l’unica donna che si iscrive alla facoltà di filosofia della sua città. Si trasferisce a Gottinga, vera «città universitaria», dove fa il primo incontro determinante della sua vita, quello con il filosofo Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia.

Resta impressionata dalla onestà rigorosa del pensiero del maestro con lui si laurea, col massimo della lode, discutendo una tesi sul problema dell’Einfuhlung, termine che i filosofi italiani traducono con «empatia».

Husserl la stima talmente che la ritiene già pronta per una cattedra e, quando viene trasferito a Friburgo, la sceglie come sua assistente.

E’ lei che deve sistemare l’enorme produzione di manoscritti e appunti stenografati che il maestro le affida: deve decifrarli prima, e sistemarli poi, segnando ciò che deve essere riveduto o completato. In una lettera del 1917, Edith scrive: «L’ultima trovata del maestro è questa: innanzitutto devo restare con lui fino a quando mi sposo; poi posso sposare solo un uomo che diventi anche lui suo assistente, ed i bambini pure. Colmo della sventura!».

Merito di Husserl – che è molto esigente ed un po’ tirannico – è quello di educare i propri discepoli al suo celebre principio: «Zu den Sacken»: occorre aderire alle cose, aderire ai fenomeni cosi come si presentano. Ed è per questa intellettuale onestà che ella non può fare a meno d’essere toccata, interiormente segnata, anche da alcuni «fenomeni» particolari.

Alcuni più generici: uno studio interessante sul Pater noster in antico germanico; l’incontro con la personalità affascinante di Max Scheler, geniale ma disordinato neo-convertito; due anni di esperienza al fronte come crocerossina durante la prima guerra mondiale, ciò che la mette a contatto col mistero della sofferenza.

Sono tutti fatti che cominciano a farle scoprire il fenomeno religioso.

Possiamo comprendere il tipo di attenzione con cui ella normalmente vive, ascoltando lei stessa descrivere la sorpresa provata durante una visita – fatta per motivi esclusivamente artistici-a una chiesa cattolica: sorpresa, al vedere una donna del popolo entrare a pregare con la borsa della spesa sotto il braccio: «La cosa mi parve strana. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti che avevo visitato si entra soltanto durante il servizio divino. Al vedere qui la gente entrare tra una occupazione e l’altra, quasi per una faccenda abituale o per una conversazione spontanea, rimasi colpita a tal punto che non mi riuscì più di dimenticare quella scena».

Altri due episodi furono invece ancora più precisi e determinanti. A Gottinga aveva conosciuto un giovane docente, Adolf Reinach, braccio destro di Husserl per i contatti con gli studenti, che l’aveva molto impressionata per la bontà, la finezza, il gusto artistico che si riflettevano perfino nella sua abitazione. Edith era diventata amica di famiglia, ma nel 1917 l’amico era stato ucciso combattendo nelle Fiandre. La giovane vedova allora chiese a Edith di aiutarla a classificare gli scritti filosofici del defunto, in vista di una pubblicazione postuma. Costei provò un estremo disagio al pensiero di dover tornare in quella casa che aveva conosciuto piena di bellezza e di  felicità, convinta che l’avrebbe trovata sprofondata nel lutto e nella disperazione. Trovò invece l’atmosfera di un’indicibile pace e vide l’amica con il volto segnato dal dolore, ma come trasfigurato.

Udì da lei il racconto del battesimo che i due coniugi avevano ricevuto pochi mesi prima quando, ambedue, si erano decisi ad entrare nella chiesa protestante – pur sentendosi attratti dal cattolicesimo – per una sorta di impulso interiore a far presto:  «Non ha importanza, non pensiamo al futuro; una volta entrati nella comunione con Cristo ci condurrà Lui dove vuole! Entriamo nella Chiesa, non posso più aspettare!» (La signora Reinach, in seguito, diverrà infatti cattolica).

Edith ascoltava quel racconto d’amore e osservava quella pace: «Fu quello il mio primo incontro con la Croce, con quella forza divina che la Croce dà a coloro che la portano. Per la prima volta mi apparve visibilmente la Chiesa, nata dalla passione di Cristo e vittoriosa sulla morte. In quel momento stesso la mia incredulità cedette, il giudaismo impallidì ai miei occhi, mentre si levava nel mio cuore la luce di Cristo. E’ questa la ragione per cui, nel prendere l’abito di Carmelitana, ho voluto aggiungere al mio nome quello della Croce».

Per quattro anni questo «fatto» o «fenomeno» lavorò nella sua coscienza finché venne portato alla massima chiarezza e consapevolezza da un altro e più determinante episodio.

Durante l’estate del 1921 Edith fu ospite, per un periodo piuttosto lungo, presso un’altra coppia di amici, convertiti anch’essi al protestantesimo. Una sera che i due sposi dovettero assentarsi, le lasciarono la propria biblioteca a disposizione.

Ecco il racconto di ciò che accadde: «Senza scegliere, presi il primo libro che mi capitò tra mano. Era il volume che portava il titolo: Vita di Santa Teresa d’Avila, scritta da lei stessa. Ne cominciai la lettura e ne rimasi talmente presa che non la interruppi finché non fui arrivata alla fine del libro. Quando lo chiusi dovetti confessare a me stessa: Questa è la verità!».

Aveva trascorso nella lettura l’intera notte; al mattino andò in città a comprare un catechismo ed un messalino: li studiò a fondo e dopo qualche giorno si recò ad assistere alla prima Santa Messa della sua vita.

«Niente mi rimase oscuro – disse – compresi anche la più piccola cerimonia. Al termine raggiunsi il prete in sacrestia e dopo un breve colloquio gli chiesi il Battesimo. Egli mi guardò con molto stupore e mi rispose che una certa preparazione era necessaria per l’ammissione in seno alla Chiesa: ‘”a quinto tempo segue l’insegnamento della fede cattolica? – mi chiese – e chi la istruisce?”. Per tutta risposta riuscii a balbettare “La prego, reverendo Padre, mi interroghi”». Dopo un esame approfondito il prete riconobbe che non c’era nessuna verità della fede su cui ella non fosse istruita.

Il battesimo venne fissato per il capodanno del 1922 e, in quell’occasione, ella aggiunse al proprio nome quello di «Teresa». La conversione segnò una profonda lacerazione tra Edith e la madre che non riusciva a capire perché mai la figlia non fosse tornata al Dio dei suoi padri. Lacerazione che doveva ulteriormente e misteriosamente approfondirsi e superarsi quando Edith decise il proprio ingresso al monastero carmelitano di Colonia. Su questo rapporto tra madre e figlia, dovremo tornare.

Dal punto di vista interiore, per Edith Teresa Stain la vocazione al battesimo e quella al Carmelo coincisero con assoluta certezza, fin dal primo momento. Tuttavia il suo direttore spirituale le impedì di concretizzare subito quella vocazione claustrale, ritenendo che ella avesse un compito insostituibile da svolgere nel mondo.

I primi dieci anni dalla conversione li passò a fare la «maestra» nel senso più totale del termine, in un istituto di domenicane in cui «la signorina professoressa» si dedicava ad educare le ragazze che si preparavano alla maturità liceale, insegnando lingua e letteratura tedesca.

Conduceva una vita molto riservata, quasi monastica, e intanto studiava la tradizione filosofica cattolica (in particolare San Tommaso) con l’intento di paragonarla col pensiero fenomenologico. La sua traduzione e commento del De Veritate di San Tommaso fu considerata un’opera d’arte sia per la limpidità della traduzione, che cosi bene si adattava all’antica lingua del Santo Dottore, sia per la profondità delle annotazioni.

Intanto, ella comincia a rielaborare il suo proprio pensiero e a pubblicare saggi scientifici, anche se la sua nuova fede non le facilita certo la carriera universitaria. Dal 1928 al 1931 partecipa a numerosi congressi ed è chiamata a tener conferenze a Colonia, Friburgo, Basilea, Vienna, Salisburgo, Praga, Parigi. Finalmente, nel 1932, ottiene la libera docenza a Múnster nell’ «istituto superiore germanico di pedagogia scientifica».

«Era – scrissero i suoi studenti – la docente che difendeva più di tutti senza compromessi il punto di vista cattolico… Superava tutti gli altri docenti per l’acutezza, l’intelligenza, per la vastità della cultura, per la forma perfetta dell’esposizione e per la fermezza dell’atteggiamento interiore».

Non era ancora trascorso un anno dalla sua nomina, quando Hitler diventò cancelliere del Reich ed impose l’allontanamento degli ebrei da ogni pubblico impiego. Il 25 febbraio 1933 Edith tiene la sua ultima lezione. E’ l’anno santo della Redenzione e le notizie delle persecuzioni naziste contro gli ebrei cominciano a diffondersi. Ormai nulla più la trattiene nel mondo e le viene perciò concesso di entrare nel monastero carmelitano dove prende il nome di Teresa Benedetta della Croce.

In clausura vive umilmente, come tutte le altre suore che nulla sanno della sua fama né delle sue capacità, e la giudicano solo, benevolmente, dal suo notevole impaccio nei lavori manuali. I superiori religiosi tuttavia giudicano che le sue capacità debbano essere valorizzate e le chiedono di continuare – compatibilmente col nuovo stile di vita monastica e di preghiera – la sua attività scientifica.

Riscrive cosi interamente, rifondendola, la sua opera filosofica principale: più di mille e trecento pagine di cui giunge a correggere le bozze, ma poi l’editore rinuncia, per paura, alla pubblicazione. S’intitola: «Essere finito ed Essere eterno».

Nel 1938 poiché il razzismo infuria, si pensa di salvarla facendola trasferire nel monastero olandese di Echt, dove si reca assieme alla sorella Rosa che l’ha seguita nella conversione e attende anch’ella di entrare in convento.

Nel 1939 scoppia la seconda guerra mondiale. I superiori chiedono a Edith di scrivere un libro sul pensiero e l’esperienza di S. Giovanni della Croce, di cui si sta per celebrare il centenario della nascita. Ella obbedisce con gioia ed intitola il saggio: «Scientia Crucis», [La scienza della Croce]. Nel 1942 cominciano le deportazioni in massa degli ebrei. L’episcopato olandese protesta e viene rassicurato: nessuno toccherà gli ebrei che si sono convertiti al cattolicesimo.

Ma questo ai vescovi cattolici non basta ed in una lettera collettiva, che viene letta in tutte le chiese il 26 luglio, essi condannano ufficialmente le deportazioni di tutti gli ebrei.

Il 27 luglio, per ritorsione, il Commissario del Reich stila questa disposizione segreta: «Visto che i vescovi cattolici si sono immischiati nella faccenda, malgrado non fossero toccati personalmente, tutti gli ebrei cattolici verranno deportati entro questa settimana. Non si tenga conto di nessun intervento in loro favore».

Successivamente il 2 agosto -a deportazione iniziata – il Commissario generale tiene un discorso pubblico in cui testualmente spiega: «Anche in alcune chiese protestanti sono state lette delle dichiarazioni… tuttavia i rappresentanti delle chiese protestanti ci hanno fatto sapere che tali notificazioni non rientravano nelle loro intenzioni, ma che non sono riusciti per motivi puramente tecnici ad impedire dappertutto che venissero lette. Se invece il clero cattolico non vuole prendersi la pena di trattare con noi, saremo costretti da parte nostra a considerare i cattolici di puro sangue ebraico come i nostri peggiori nemici e quindi a deportarli al più presto in oriente».

Allora molti ancora ignoravano che deportazione volesse in realtà dire genocidio. Nello stesso giorno alle porte del Monastero di Eclit – la Gestapo si presentava con un carro blindato per prelevare «la monaca ebrea».

Le restavano pochi minuti di tempo. Sul suo tavolo la «Scientia Crucis» è quasi finita: l’opera è giunta al momento in cui descrive la morte di S. Giovanni della Croce.

Le ultime parole di Edith che le consorelle odono, sono rivolte alla sorella Rosa, terrorizzata: «Vieni, andiamo per il nostro popolo».

Da lei ricevono ancora un biglietto indirizzato alla Priora in cui ella chiede di rinunciare ai tentativi che sono stati messi in atto per rintracciarla e farla liberare. C’è scritto:  « … io non farei più niente in questa faccenda. Sono contenta di tutto. Una «Scientia » la si può acquistare solo se la croce la si sente pesare in tutta la sua gravezza. Di questo sono stata convinta fin dal primo momento e ho detto di cuore: ‘Ave crux, spes unica’ (salve o croce, unica speranza)».

Prima di concludere la sua vicenda, è però necessario riflettere sul mistero da cui la vita di Edith Stain fu segnata. Ciò che impressiona sono le coincidenze: cioè un intrecciarsi di legami profondi tra persone ed avvenimenti, apparentemente diversi e lontani: intreccio che improvvisamente si lascia intravedere e fa intuire che cosa significhi che tutta la nostra storia è intessuta secondo un provvidenziale disegno di Dio.

Consideriamo anzitutto il mistero della sua razza ebraica e della sua vocazione cristiana: mistero personificato nel rapporto che Edith ebbe con la madre. Osserviamo come persino le date – oltre che gli avvenimenti – siano piene di significato.

La bambina nasce il 12 ottobre 1891: per il calendario ebraico è il giorno del Kippur, la grande festa della Espiazione. «Alla madre – scriverà Edith – ha attribuito grande importanza a questo fatto e credo che ciò abbia contribuito più di ogni altra cosa a renderle particolarmente cara la sua figlia più giovane».

La madre muore il 14 settembre, giorno che per i cristiani è la festa dell’Esaltazione della S. Croce – l’Espiazione cristiana – e giorno in cui le carmelitane rinnovano a Dio i loro voti. Dice Edith: «Quando venne il mio turno di rinnovare i voti, mia madre era con me, Ho sentito chiaramente che mi era vicina».

Dopo qualche tempo un telegramma annuncia la morte della vecchia signora, avvenuta nella stessa ora in cui la figlia rinnovava la sua offerta a Dio.

Qualcuno mise superficialmente in giro la voce che la mamma si era convertita, Edith si ribellò: «La notizia della conversione di mia madre è del tutto infondata. Chi l’abbia inventata non so: mia madre ha conservato la sua fede fino all’ultimo. Ma poiché questa fede e la sua confidenza nel Signore hanno perseverato fin dalla prima infanzia fino ai suoi ottantasette anni e sono state l’ultima scintilla rimasta viva in lei durante la sua agonia, ho fiducia che ella abbia trovato un giudice molto buono e sia diventata la mia più sollecita protettrice per aiutarmi ad arrivare a mia volta alla méta ».

Nel rapporto tra madre e figlia, tutta la passione e le sofferenze che uniscono e separano ebraismo e cristianesimo sono rappresentate come in un’icona vivente. Tutto era cominciato quel giorno in cui, pur sapendo di straziarle il cuore e di non poter essere capita, la figlia s’era presentata alla madre, s’era inginocchiata davanti a lei e, senza nessuna tergiversazione, con tenerezza e fermezza, le aveva detto: « Mamma, mi sono fatta cattolica ».

Fu la prima volta che Edith vide piangere quella donna che aveva affrontato da sola con undici figli, una dura vita di «educazione», di lavoro e carità.

Una volta durante il giorno dell’Espiazione che la vecchia signora trascorreva completamente nella sinagoga, senza prendere un boccone né un bicchier d’acqua – Edith l’aveva accompagnata per farle piacere. La madre osservava: «Non ho mai visto nessuno pregare come Edith- dirà ad un amica – e quel che è più strano è che lei può seguire col suo libro le nostre preghiere».

E quando il Rabbino lesse con voce profonda le parole solenni: “Ascolta, Israele, il tuo Dio è uno solo”, la madre strinse convulsamente il braccio della figlia dicendole: «Hai sentito? Il tuo Dio è uno solo! ».

Il dramma divenne ancora più violento un altro giorno dell’Espiazione, il giorno 12 ottobre 1933, l’ultimo che Edith passò a casa. Tornando dalla sinagoga, alla sera, benché assai anziana, la madre volle fare il percorso a piedi con la figlia. Per farle piacere Edith le disse che il primo periodo in monastero sarebbe stato soltanto di prova: « Se tu fai una prova – disse soffrendo la donna – sono certa che la superi… ».  E poi: «Non era bella la predica del Rabbino?». «Si». «Anche nella fede ebraica si può essere religiosi?». «Si, quando non si è conosciuto altro».

«E tu – replicò desolata – perchè l’hai conosciuto? Non voglio dire niente contro di Lui, era certamente un uomo molto buono. Ma perché ha voluto farsi Dio?». «A sera – racconta Edit – mia madre ed io rimanemmo sole nella camera. Ella nascose il viso tra le mani e incominciò a piangere. Mi posi dietro la sua sedia e andavo stringendo al seno la sua testa bianca. Rimasi a lungo cosi, finché riuscii a persuaderla ad andare a letto. La condussi su e l’aiutai a svestirsi – per la prima volta nella mia vita. Poi rimasi ancora seduta accanto al suo letto, in silenzio, finché lei stessa non mi mandò a dormire ».

L’indomani la scena straziante si ripeté. Ed Edith dovette fuggire. La madre non le scrisse mai, solo qualche volta andava di nascosto a vedere come era fatto il monastero carmelitano della sua città e, negli ultimi tempi, aggiungeva nelle lettere delle sorelle un saluto per la Madre Priora di Edith. Edith le scriveva ogni venerdì, fino a quel giorno in cui la madre morì mentre lei pronunciava i voti.

Coincidenze. 1933: l’anno in cui si dava inizio al tentativo demoniaco del terzo Reich, era anche l’anno santo della Redenzione, millenovecento anni dalla morte di Cristo, ed era anche l’anno in cui Edith decideva di entrare nel suo monastero carmelitano. Ascoltiamo lei direttamente:

«Era la vigilia dei primo venerdì di aprile e in quell’anno santo la passione di Nostro Signore Gesù Cristo veniva commemorata con la massima solennità. Alle 8 di sera ci trovammo per l’ora Santa nella Cappella dei Carmelo… Il predicatore parlava molto bene… ma il mio spirito era occupato in qualcosa di più intimo delle sue parole. Mi rivolsi al Redentore e gli dissi che sapevo bene come fosse la sua Croce che veniva posta in quel momento sulle spalle del popolo ebraico. La maggior parte di esso non lo sapeva comprendere, ma quelli che avevano la grazia di intenderlo avrebbero dovuto accettarlo con pienezza di volontà a nome di tutti. Mi sentivo pronta e domandavo soltanto al Signore che mi facesse vedere come dovevo farlo. Terminata l’ora Santa ebbi l’intima certezza d’essere stata esaudita, sebbene non sapessi ancora in che cosa doveva consistere quella croce che mi veniva addossata».

Per testimonianza diretta di Edith, sappiamo che ella entrò in monastero con la persuasione che Dio le preparava nel Carmelo qualcosa che soltanto là avrebbe potuto trovare. Quando aveva deciso il suo ingresso, alcuni familiari l’avevano accusata di mettersi in salvo, proprio nel momento in cui il suo popolo veniva perseguitato.

Un’amica glielo aveva ridetto, quasi per rassicurarla, pochi giorni dopo la sua vestizione. «Oh no! – aveva risposto Edith già allora – non ci credo! Verranno di certo a portarmi via di qua, e in ogni modo io non devo affatto contate di essere lasciata in pace».

Quando le SS la portarono via, le suore, riordinando le sue carte, trovarono un’immagine su cui ella aveva scritto l’atto di offerta della propria vita per la conversione degli ebrei. E già nella domenica di Passione del 1939 ella aveva chiesto alla sua Priora il permesso di offrirsi al Cuore di Gesù come vittima espiatrice per la vera pace: «Lo desidero perché è già la dodicesima ora… so di essere un niente, ma Gesù lo vuole ed Egli un giorno chiamerà certamente anche molti altri». Ancor prima, nel 1938, in una lettera, aveva scritto:  «Sono certa… che il Signore ha accettato la mia vita per tutti. Penso alla regina Ester che è stata scelta tra il suo popolo per intercedere davanti al re per il suo popolo. Io sono una piccola Ester, povera ed impotente, ma il Re che mi ha scelta è infinitamente grande e misericordioso. E questa è una grande consolazione».

E veniamo alle ultime coincidenze. Nella Chiesa, il Santo che più d’ogni altro ha insegnato la necessità della Croce è il mistico riformatore del Carmelo.

Edith scrive su di lui la sua ultima opera: la «Scientia Crucis»; l’interrompe quando sta narrando la morte del Santo, perché deve non più scrivere, ma sperimentare di persona quella « scienza della croce » di cui ha scritto.

E così ella che è nata nel 1891, terzo centenario della morte di S. Giovanni della Croce (1591), muore nel 1942, quarto centenario della nascita del Santo (1542).

E, infine, l’ultimo intreccio misterioso.

In quegli anni di orrore, un popolo cristiano smarriva – in buona maggioranza – la sua fede e ne riesumava una pagana, terribile: la fede nel sangue ariano: «Oggi – scriveva l’ideologo ufficiale del partito nazista – nasce una nuova fede: il mito del sangue, una fede che con il sangue salvaguardia l’essenza divina dell’uomo, una fede basata su questa evidenza: il sangue nordico rappresenta il mistero che spodesta e sostituisce gli antichi sacramenti».

Sull’unica rivista ideologica ufficiale del partito, Rosenberg scriveva: «Tra le grandi potenze ideologiche che si oppongono irriducibilmente a una comunità di popoli bianchi accomunati dal sangue nordico… c’è la Chiesa romana… ».

Nella sua stessa persona Edith espresse questo vero dramma teologico su cui non riflettiamo mai abbastanza: uccisa come ebrea perché non aveva «sangue nordico» da ex cristiani che si dedicavano a inventare un nuovo paganesimo, ma uccisa perché cristiana, per vendetta contro i vescovi che quel paganesimo avevano voluto condannare.

Ed Edith apparteneva contemporaneamente, interamente, paradossalmente, al popolo cristiano e al popolo ebraico. Anzi, è testimone di quanto il popolo cristiano sia innestato su quello ebraico e di quanto diventi pagano un popolo cristiano che si scaglia contro le sue «sante radici».

« Ho ricevuto – scriveva Edith al chiudersi del 1939 – il nome che avevo chiesto. Sotto la croce avevo capito il destino che per il popolo di Dio cominciava ad annunciarsi in quel tempo… Certo oggi so meglio che cosa voglia dire essere sposata con il Signore nel segno della croce. Capirlo veramente non lo si potrà mai – è un mistero».

Il mistero di Edith Stein ha anche un altro risvolto personale che riguarda la sua vocazione professionale nel mondo della cultura. Anche in questo campo le cosiddette coincidenze significative non mancano.

Nel lungo tempo del suo ateismo, ella poté dire di sé: «la mia unica preghiera era la sete di verità». Questa sete la spinse verso la città universitaria di Gottinga, considerata «il paradiso degli studenti, dove giorno e notte, a tavola e passeggiando, non si fa che filosofia e, s’intende, non si parla che di fenomenologia»,Il suo ideale vivente diventa Edmud Husserl: «il filosofo, il maestro indiscutibile dei nostri tempi»: colui che insegna la conoscenza oggettiva.

La passione di Edith era tanta che, ancor prima di partire per l’università, i suoi compagni la chiamavano per scherzo «il conoscitore oggettivo» e le dedicarono una canzone in cui si diceva che tutte le ragazze sognano solo dei «baci» (in tedesco: Husserl) mentre Edith, lei «sogna di incontrare Husserl in carne ed ossa».

«Avevo 21 anni ed ero piena di aspettative. La psicologia mi aveva delusa; ero giunta alla conclusione che si trattava di una scienza in fasce e mancava di fondamenti oggettivi. Invece per la fenomenologia, il poco che sapevo mi incantava, soprattutto per il metodo oggettivo di lavoro».

E spiega: «Tutti i giovani fenomenologi erano in primo luogo e deliberatamente dei realisti… Ci sembrava che le Ricerche Logiche costituissero una nuova scolastica… e la conoscenza ci appariva come una facoltà rinnovellata».

Non possiamo qui fare della filosofia. Ma tutti possiamo capire almeno quale fosse la posta in gioco. Dopo un lungo periodo di tempo in cui aveva dominato il soggettivismo (per cui la verità dipende da ciò che il soggetto pensa e costruisce) tornava a dominate la verità oggettiva: «La verità è un assoluto… non dipende da chi la pensa… Bisogna partire dall’esperienza, descriverla prima di volerla spiegare… » cosi diceva Husserl. E insisteva: « Bisogna andare alle cose e domandare loro quello che esse stesse dicono, ottenendo cosi delle certezze che non risultano affatto da teorie preconcette, da opinioni ricevute e non verificate».

Sappiamo come per Edith questo insegnamento abbia agito anche in campo religioso e come ella abbia poi tentato – in seguito alla sua conversione – di mettere a paragone e di cercare di far interagire la filosofia perenne della Chiesa, incarnata da S. Tommaso d’Aquino, con l’insegnamento di Husserl.

Costui stesso riconobbe che la Chiesa cattolica aveva trovato con Edith Stein «una neoscolastica della migliore qualità». Ma ciò che qui più ci interessa è la comunione di destino che si instaurò tra il maestro e la discepola, divenuta discepola di Cristo. Costei aveva parlato al maestro della sua conversione ed era stata accolta con molta cordialità, ma aveva anche capito che tra lei ed il filosofo si era aperto ormai un abisso. Husserl, di razza ebraica, era stato educato nel protestantesimo, ma non era un credente.

Su quell’incontro Edíth scrisse: «Tra essere uno strumento, per quanto si voglia eletto, e possedere la grazia c’è un abisso». L’abisso si rivelava soprattutto quando si giungeva a parlare della «gravità e dell’importanza delle cose supreme». L’ideale di Husserl restava un ideale filosofico e l’interesse predominante restava il compimento della propria ricerca. Anche la morte era da lui considerata e preparata con atteggiamento più socratico che cristiano.

Leggiamo ora una lettera di Edith:  «Il giorno dopo i voti solenni ho ricevuto un biglietto della signora Husserl in cui mi dava notizia della dichiarazione della sera del giovedì santo. Gli avvenimenti di questa settimana mi sono sembrati un vero e proprio regalo in occasione della mia professione. Lo desideravo proprio che il passaggio di Husserl alla vita eterna avvenisse in questa settimana, per via della stessa coincidenza che ha fatto si che anche la mamma mancasse nell’ora in cui noi rinnovavamo i voti. Non perché io abbia per questo tanta fiducia nelle mie preghiere o nei miei eventuali ‘meriti’. Sono solo convinta che Dio non chiama nessuno per se stesso e che inoltre, quando gradisce l’offerta di un’anima, è prodigo di dimostrazioni di amore» (15.5.1938).

L’agonia di Husserl durò dal giovedì santo, 14 aprile 1938, al 27 aprile. Nello stesso periodo Edith si preparava alla sua consacrazione definitiva che avvenne il 21 aprile.

Il tutto accadde tra la settimana prima di Pasqua e quella dopo Pasqua. Esiste una interessante relazione sulla morte di Husserl che dimostra come lentamente il maestro calmò le sue preoccupazioni filosofiche, aprendosi alla fede, come un bambino.

Non posso qui ripetere tutta la, lunga testimonianza. Riferisco solo alcune espressioni di lui: Il pomeriggio del 14 aprile, giovedì santo: «Ho vissuto da filosofo, voglio cercare di morire da filosofo… ». Più tardi, dialogo con la suora infermiera: «E’ possibile morire bene?». «Si, e in pace profonda». «Ma come?», «Per la grazia di Gesù Cristo, il nostro Salvatore». «Bisogna pregare per me».

Verso le 9 di sera del giovedi santo (questa è la notizia che la moglie di Husserl scrive a Edith): «Dio mi ha ricevuto nella sua grazia, mi ha permesso di morire…».

Da quel momento non parla più della sua opera filosofica ed è come sollevato. Venerdì santo mattina: «Dio è buono!». «Si, è buono, ma è anche incomprensibile e questo per me è una grande prova». «Che bel giorno il venerdì santo! Cristo ci ha perdonato tutto». Diceva di veder luci e tenebre e poi di nuovo luce. Restò in coma fino al 27 aprile.

Quel giorno, volgendosi verso la sua infermiera, gridò: «Ho visto qualcosa di meraviglioso: presto, scriva! » e spirò.

Edith testimoniò umilmente, ma esplicitamente, che la sua storia spirituale e quella del suo maestro si erano saldate in una indicibile profondità. (Anche la signora Husserl divenne più tardi cattolica).

Ancora molte cose potremmo dire soprattutto su un altro aspetto della figura di Edith Stein, quello che la portò ad appassionarsi ai problemi della donna, in difesa di un equilibrato femminismo cattolico. A questo tema è dedicato un intero volume di saggi (il volume delle sue «Opere»).

Il bellissimo principio di Edith, che occorre ben comprendere e ben spiegare, è: «sento la mia anima sempre più libera quando obbedisco».

Solo la lettura diretta delle sue riflessioni (a cui rimandiamo) può far capire quanto questa espressione non possa e non debba essere strumentalizzata, ma abbia invece una intima forza di capovolgere schemi mentali rigidi ed abitudinari.

Dobbiamo concludere, ritrovandoLa nel momento supremo della sua passione. Non è senza significato che le poche notizie su di lei che ci sono giunte dal campo di concentramento di Westerbork, dove si fermò prima di essere avviata all’ultima stazione della sua «via Crucis», dipingono l’immagine di una donna che « si distingueva per il comportamento pieno di pace e l’atteggiamento calmo. Le grida, i lamenti, lo stato di sovreccitazione angosciata dei nuovi arrivati erano indescrivibili. Suor Benedetta andava tra le donne come un angelo consolatore, calmando le une, curando le altre. Molte madri sembravano cadute in una sorta di prostrazione prossima alla follia; rimanevano a gemere come inebetite trascurando i figli. Suor Benedetta si occupò dei bimbi piccoli, li lavò, li pettinò, procurò loro il nutrimento e le cure indispensabili. Per tutto il tempo in cui stette al campo dispensò intorno a sé un aiuto cosi caritatevole che a pensarci mi sconvolge».

Questa è la testimonianza di un commerciante ebreo di Colonia che la incontrò al campo e che riusci poi a sfuggire al massacro.

«A lei che cosa accadrà ormai?», aveva chiesto il commerciante a quella Suora piena di carità. E la risposta fu: «Fin qui ho potuto pregare e lavorare, spero di poter pregare e lavorare ancora».

Tra l’8 e l’11 agosto 1942, Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce, unì il suo sacrificio a quello di Cristo, in una camera a gas di Auschwitz.

 

Antonio Sicari, Testimoni della Fede Religiose.

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