Qui, tra Israele e Palestina, cade a pezzi l’illusione di farci da soli

Mi trovo attualmente in Israele e Palestina con un gruppo di pellegrini americani. Un gruppetto fra questi mi facevano domande sulla società, la cultura e la politica attuali in queste terre. Spiegavo le difficoltà che ci sono fra le diverse identità ed appartenenze etniche, religiose e politiche. Un giovane mi ha chiesto se — data l’intensità di questi rapporti e le lotte profonde e continue che riempiono ogni ambito fisico e mentale — non sarebbe possibile per qualcuno fare semplicemente un “opting out”, “assentarsi” dalle tensioni riguardanti l’identità della persona, non considerandosi più né arabo né ebreo, o musulmano, o cristiano, ortodosso o laico. Si può vivere senza queste pericolose varianti, volendo?

Ho capito che quel giovane descriveva quello che per lui sarebbe l’ideale del “be yourself”: non lasciarsi vincolare dalle trame (e dalle guerre) decise da altri, potendo autodefinire le proprie scelte. Che libertà!

La mia reazione è stata un po’ piccata. “Allora non hai capito nulla di quello che stavo dicendo?” — ho detto. “Sì — ha risposto lui — ma non sarebbe possibile in una città come Tel Aviv, grande, moderna e piena di giovani?” “Sì, ma solo fino a un certo punto — ho replicato —. Perché le circostanze che chiamano la persona ad appoggiare la propria tribù, popolo o appartenenza stanno sempre in agguato”.

E ho fatto un esempio. Un giorno, anni fa, tornavo da Gerusalemme a Betlemme e mi accingevo a far controllare i miei documenti al checkpoint per passare dall’altra parte. Era l’ora in cui gli operai arabi di Betlemme arrivano al checkpoint per tornare a casa. Li vedevo dietro a me saltare giù dai van e dalle auto per arrivare davanti al controllo, sapendo l’enorme differenza di tempo che può voler dire arrivare un minuto prima o dopo.

Infatti, quando sono arrivato io con il primo gruppetto c’era solo una giovane soldatessa che stava controllando lentamente i documenti, impiegando al massimo un minuto a persona. In fila eravamo già due o trecento. Da dietro cominciarono a spingere, a fare una forte pressione su noi che eravamo davanti, spaventandoci e provocando urla e grida. Improvvisamente, sopra di noi, vedemmo i corridoi in alto riempirsi di soldati con le armi spianate e appena fuori dal cancello si udì l’esplosione di una granata a concussione. Venne il silenzio. Poi uscirono altri soldati per controllare i documenti affinché non si dovesse aspettare per ore e ore. Sarebbero usciti i nuovi controllori senza questa situazione pericolosa? Forse no.

Uno non può affrontare la vita con un’identità che si è costruito lui, a scelta. È troppo effimero, inconsistente. La persona non resiste e crolla.

“E la mia libertà?” — mi chiese allora il giovane. “Dove sta? Noi cristiani non crediamo nella scelta, nella possibilità di scegliere noi la nostra strada, la nostra identità?”

“No” — ho risposto, e ho spiegato perché. Una identità costruita integralmente sulle nostre scelte è qualcosa di immaginario, non esiste. E poi non funzionerebbe. Non è questa la nostra libertà. La libertà consiste nell’aderire con amore a ciò che Dio, nella grazia amorosa e misericordiosa del suo Figlio, ha scelto noi. La libertà che cambia il mondo sta qui; la libertà che cambia la storia, come avevamo visto poche ore prima a Nazareth, sta qui, nell’adesione piena di gratitudine al fatto che Egli ha scelto me, tutti noi, per Lui. E la nostra consistenza sta nella infinita potenza della scelta di Dio.

 

Vincent Nagle

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