Una vita presso la fonte

Sant’Agostino diceva: “Desiderium sinum cordis”. Cioè: “È il desiderio che scava il cuore” … è il desiderio che rende profondo il cuore. Anche noi, come Sant’Agostino, sperimentiamo che il nostro cuore, come zolla di terra colpita dal desiderio di Assoluto e assetata di pienezza, scavata dal limite della finitudine e dalla coscienza del peccato, diviene generativa, vitale proprio in forza di questa esigenza di acqua, di questo zampillo inesauribile verso cui, misteriosamente e caparbiamente, il cuore è proteso. “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua” (Sal 62). Come un pozzo: ferita della terra che genera vita, la nostra esistenza si attualizza quale continua possibilità di scavare tra le profondità che ci abitano e lì incontrare la “Verità”.

Addentrarsi con vigore nell’esperienza della sequela monastica significa, infatti, imparare e scendere verso la propria debolezza, piccolezza, fragilità, relatività; significa avvertire e valorizzare il proprio vuoto, la propria mancanza, la propria creaturalità… Ancora Sant’Agostino: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Conf. 1,1)”. Tuttavia, tale discesa non è un procedere impegnato a saturare continuamente la mancanza, il vuoto che riconosciamo, sperimentiamo, constatiamo, quanto piuttosto è un andare- nel tempo- cercando di comprendere, passo passo, dove sta la vera mancanza, il vero vuoto e nell’incontrare Colui che può realmente non solo colmarlo, ma renderlo sorgente zampillante, fonte che ci disseta e, nel dono e nella resa, disseta.

Un itinerario alla ricerca di un Volto, di un Nome, di una Fonte che presuppone e si alimenta con la gioia e la fatica della brama di un Altrove che riempia, di una sola ed essenziale beatitudine: l’Unico. Questo cammino richiede l’acquisizione di un atteggiamento interiore che ci renda capaci di incontrare veramente noi stesse Dio, gli altri. Un esercizio costante di raccoglimento; un assiduo richiamo di noi a noi stesse, delle nostre forze, dalla dispersione all’unità… alla semplificazione dei nostri desideri; un’attitudine ad imparare a “stare dentro” senza bramosie, a diventare tranquille, a contenere distrazioni, inquietudini, a convocare a raccolta le nostre energie per poi protenderle all’azione nella concretezza del dono. Un esercizio assolto in compagnia di noi stesse ma davanti a Dio.

La scelta consapevole di osservare la nostra vita con realismo ma con la pace di chi si percepisce avvolto, superato, contenuto da un mistero, nonostante i passi falsi e meno esaltanti del cammino, nonostante i difetti, le immaturità, le tante incoerenze, i più o meo sopiti dubbi. La volontà di posare lo sguardo esigente ma benevolo sulle forze vive che ci abitano, forze non sempre del tutto integrate o che a volte non sappiamo gestire adeguatamente (affettività, relazionalità, bisogno di considerazione, conferme, autoaffermazione).

Un impegno a non trascurare nulla, raccogliere… nella cesta interiore ogni cosa, anche tutti i pezzi avanzati (Gv 6,12)… tutto, la vita intera. Stare raccolte, richiede un costante allenamento ma via via, diviene uno stato che ci consente di riconoscere i passi di Dio nella vita di tutti i giorni, di incastonare i più piccoli tasselli del quotidiano nella Parola, di aprirci, in modo sempre più affidato, alla sua azione. È un lento passaggio dal training alla condizione esistenziale che col salmista ci fa pregare: ”Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89) . Poi il silenzio, e la solitudine che custodiscono la vita in monastero, promuovono e invitano tacitamente al raccoglimento, creano le condizioni di prendere le distanze da sollecitazioni, inquietudini, affanni che distolgono dall’Essenziale… «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta». (Lc 10, 41-42).

Il tempo è preordinato per stare con Dio, per ascoltare la sua voce, per riconoscere le sue tracce, sempre più a occhio nudo… Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili. (Sal 77). Una vita raccolta: dentro la dimora abituale del cuore dove, come in un sacrario, Dio abbraccia la nostra verità. Non si può tuttavia non ammettere la fatica che comporta la diuturna e consapevole assunzione della solitudine come condizione esistenziale, cercata con fascino ma custodita con dolore, la tensione irresistibile verso Dio e, al tempo stesso, il bisogno degli altri, la soavità del silenzio e talvolta l’incapacità ad abitarlo fino in fondo. Ecco perché con responsabilità e onestà, siamo chiamate ad alimentare il nostro stato di continua vigilanza perché impariamo a riconoscere l’essenziale, ad assumere le nostre scelte, piccole e grandi, ad ascoltare e indossare la propria e altrui umanità per deporla- come supplica- nel cuore di Dio, a discernere per non lasciare entrare indistintamente tutto quello che bussa alla porta dell’attenzione, a trovare il senso e dare spessore alla vita, a garantire alla nostra umanità un “buon viaggio” verso la libertà… verso “ciò che buono, gradito a Dio e perfetto” (Rm 12, 2), verso quella stabilità interiore che deriva dall’aver compreso su chi è appoggiata la nostra vita. “Le sue fondamenta sono sui monti santi”… (Sal 87).

Il cammino monastico, così condotto diviene itinerario di progressiva guarigione. Non si può, infatti, avere la presunzione di conoscere bene la linea di demarcazione, sottile e invisibile, tra la fonte e noi,  tra Dio e l’io. L’impegno di attenzione e vigilanza, per quanto serio e coscienzioso, può sempre riuscire a farsi sfuggire temporanee, minuscole o, apparentemente, innocue sbavature d’un io che attira gli altri e le cose verso di sé, che cerca di trascinare dalla sua parte tutto, (anche Dio se potesse), tentato dal bisogno di stare al centro, quel centro che di fatto spetta solo al Signore Crocifisso e Risorto. «Assolvimi dalle colpe che non vedo» (Sal 19) . Imparare a stare raccolte, allora, significa anche allenarsi a riconoscere certi campanelli interiori: la preoccupazione eccessiva di salvaguardare una presunta dignità, l’ansia di una stima di sé da difendere con ogni tipo di arringa, la tendenza alla ricerca di sé o la presunzione di sapere già tutto di sé. Nell’esercizio del raccoglimento la vita si concretizza come un andare deciso verso la radice dell’esistenza, come cammino di libertà, come capacità di assaporare la vita alla Fonte, come vita spirituale.

Monastero Janua Coeli

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