“Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto…è finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli![…] Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.”
Tutti abbiamo letto sui manuali di storia queste raccapriccianti parole con cui si è soliti ritrarre il clima di irrazionalismo in cui ci si consegnò alll”inutile strage, orrenda carneficina” (Benedetto XV) della Prima Guerra Mondiale.
Parole le quali lo stesso autore avrebbe più tardi fermamente rinnegato, dopo il suo rinsavimento e soprattutto dopo la sua conversione al cattolicesimo: stiamo parlando del grande letterato Giovanni Papini (1881-1956), “una figura unica, insostituibile, a cui tutti dobbiamo qualcosa di noi stessi” (come lo definì Montale) il quale ci ha lasciato, oltre a numerose opere di alto e indiscusso (anche se dimenticato) valore letterario, una pregevole biografia di Gesù (Storia di Cristo), che ha nutrito la fede di tantissime anime. Biografia in cui ha messo a disposizione il suo raffinato talento per parlare di quel Gesù che gli aveva insegnato a provare “il rimorso di aver preparato anch’io, col cinismo misantropico degli ultimi anni, quell’acciecamento spirituale che ora si sfogava nelle stragi; rimorso di sentirmi quasi complice, benché inerme, di quella forsennata devastazione di corpi, di cuori, di patrie; rimorso della mia impotenza a far sì che il sanguinolente flagello avesse fine” (da La seconda nascita, opera postuma). Quel Gesù che, insomma, aveva salvato la sua anima dai fumi del decadentismo, del futurismo e delle avanguardie in cui avrebbe brillato come artista, ma in cui sarebbe marcito come uomo.
Ora, molti dei suoi lettori non sanno forse che dietro questa storica conversione, una delle più eclatanti del Novecento, c’è stato il sorriso e lo sguardo di Teresina, la nostra S. Teresa di Gesù Bambino del Volto Santo la quale, come sappiamo da tante altre radicali conversioni, ha sempre avuto un debole per i più lontani peccatori con cui, sin dalla sua più tenera età, aveva voluto solidarizzare. E’ lo stesso Papini a riconoscerlo, in un racconto intitolato “Il sorriso della santa”, nella sua opera autobiografica Passato remoto (1948), di cui raccomandiamo la lettura. In esso il letterato fiorentino racconta del suo incontro, avvenuto in una autunnale mattina della sua infanzia, con una graziosa ragazza che “poteva avere 14 o 15 anni; il volto era pienotto, tondeggiante, illuminato da occhi dolci, ardenti, profondi, che mi fecero tale impressione da fare abbassare i miei”: insieme ai suoi familiari, stava cercando ansiosamente, balbettando qualche parola di italiano, la Chiesa di S. Maria Maddalena dei Pazzi, alla quale il piccolo Papini li avrebbe condotti: “la giovinetta non disse nulla, ma, quasi per ringraziamento, mi rivolse un così bel sorriso, che turbò stranamente il mio cuore di fanciullo timido”. Tale ricordo sarebbe rimasto vivamente impresso nella mente del fanciullo, fino a che, molti anni più tardi, sarebbe combaciato perfettamente con la foto di S. Teresina pubblicata in Storia di un’anima, la quale lo avrebbe definitivamente convinto che quella soave ragazza incontrata tanti anni prima era proprio la piccola grande Santa. Da lei stessa sappiamo, com’è raccontato nella sua celebre autobiografia, che proprio a 15 anni si era recata con il padre e la sorella maggiore Celina in pellegrinaggio in Italia, per avere udienza col Papa, al quale avrebbe arditamente chiesto di potere entrare nel Carmelo nonostante la giovane età. Proprio per questa domanda così difficile avrebbe sentito l’urgente bisogno di impetrare la grazia a S. Maria Maddalena dei Pazzi (anche lei aveva voluto entrare giovanissima nel Carmelo), andando a pregare sulla sua tomba a Firenze, città in cui il treno dei pellegrini si fermò prima di arrivare a Roma.
Quanto sono infinite e ammirabili le vie del Signore! Teresina era lì per chiedere una grazia per sé, e non sapeva che, semplicemente con il suo sguardo innamorato e il suo sorriso grato, ne avrebbe ottenuta una per un bambino sconosciuto (il secondo forse dei suoi “figli convertiti”, dopo il celebre Pranzini: un altro italiano, il famoso omicida cui sarebbe riuscita a strappare il pentimento con le sue preghiere, un attimo prima della sua esecuzione capitale, che avvenne proprio pochi mesi prima del viaggio in Italia di Teresina). Ma neanche Papini lo sapeva, come si legge nella conclusione del suo racconto: “E spesso mi vien fatto di pensare, perdoni Dio questo pensiero, se è figlio di superbia, che il sorriso di Santa Teresa mi abbia accompagnato, senza che io lo sapessi, fino ai misteriosi giorni di una più potente Grazia”: la Grazia, appunto, della sua conversione.
A questo punto si potrebbe pensare che stiamo indulgendo a facili entusiasmi per l’agiografia di Teresina. Ma il quadro si fa terribilmente più chiaro se accostiamo la lettura del racconto dell’incontro con la Santa – da cui deduciamo, visto che il viaggio in Italia di Teresina è stato nel 1887, che Papini allora aveva sei anni – a un altro testo in cui lo scrittore fiorentino descrive impietosamente la propria “non-infanzia”, nel periodo in cui aveva precisamente sei anni. E’ Un uomo finito, altra opera di carattere autobiografico del 1913:
“Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso – né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi diede il soprannome di vecchio a sei o sett’anni e che tutti i parenti l’accettarono. E difatti mene stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche con gli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; i gesti mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell’età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più ritirati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un bambino scontroso e le donne in capelli un rospo. Avevan ragione: dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai”
“Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e di nemico. Non per invidia: era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti. Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini.
Lette queste parole, non bisogna essere esperti psicologi per legare questa autopresentazione all’invocazione del “caldo bagno di sangue” della citazione iniziale di questo articolo (tratta da Amiamo la guerra, pamphlet del 1914). Ma continuiamo la lettura di Un uomo finito:
“No: io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d’essere stato bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso, senza un sorriso, senza uno scoppio di franco piacere. Mi rivedo pallido e attonito come nel primo ritratto […] La mamma dice che son io a sett’anni. Può essere. Questo ritratto è l’unica prova che resti della mia fanciullezza. Ma vi par forse questo un ritratto di bambino? Questo piccolo spettro slavato, che non mi guarda, che non vuol guardare nessuno?”
I corsivi sono nostri: per evidenziare quanto uno sguardo e un sorriso siano esattamente ciò di cui ha bisogno un’anima per rinascere. E per sottolineare l’amorevolezza infinita con cui Gesù continua nei secoli, nei suoi santi, a guardarci e sorriderci per vincere la nostra morte.
F. Iacopo Iadarola ocd