Svegliarsi da un sogno

«Disse ancora [Gesù]: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» (Lc, 15, 11-32).

Abbiamo scelto questo brano perché esprime molto bene l’abitante che siamo tutti noi quando dimoriamo in queste seconde mansioni. In un primo momento, pensavo di fermarmi alla prima parte del brano, fino al veresetto 20, quando si dice che il figlio più giovane, si alzò e tornò a casa, da suo padre. Successivamente, nel meditare su questo livello di rapporto con Dio, di amicizia con Lui, di preghiera, mi sono detta che anche il primogenito, quello che è rimasto a casa, è un ottimo rappresentante dell’abitante delle seconde mansioni!

Questo, mi dà l’opportunità di fare un’ulteriore sottolineatura sulla visione del castello, come la vede la Santa Madre. Lei parla sempre di mansioni al plurale proprio perché non esiste una sola stanza, al livello più esterno o nei vari livelli, ma ne esistono tante, ci sono molti modi di poter vivere un rapporto con Dio ad una certa profondità. I modi sono vari perché siamo persone diverse: il mio modo non può essere quello di ciascuno di voi; e anche nella stessa persona, a seconda del momento che sta vivendo, le sfumature nel vivere il medesimo livello di rapporto con Dio possono essere diverse. Non siamo mai tutti uguali e sempre uguali a noi stessi e, anzi, nella vita dello spirito è bene che sia così, perché rimanere statici in una determinata modalità della vita dello spirito significa tornare indietro. Nella vita dello spirito non esiste mai lo stare fermi: o si va avanti o si va indietro. Ci si ferma solamente quando si muore, sia che si muoia fisicamente, sia che si muoia spiritualmente.

Quindi, la vita spirituale è un continuo vagare per queste stanze e Teresa dice che non dobbiamo cercare di fermarci in una dimora specifica (ammesso che non sia l’ultima, la più profonda): per quanto ci possiamo stare bene è necessario che un pochino ci muoviamo: sono tanti i modi di poter amare Dio o di lasciarsi amare da Lui, è bene sperimentarli tutti. Dio è Infinito, pertanto la fantasia per amarci o per incontrarci in ogni stato della vita non gli manca. Lo troviamo sempre disposto ad accoglierci qualunque sia lo stato in cui ci troviamo e quindi anche noi dobbiamo fare i piccoli esploratori. Abbiamo intitolato questi momenti che viviamo insieme “Cammino di Preghiera” perché la nostra vita è appunto un continuo andare verso Dio: bisogna avere il coraggio di andare un po’ dappertutto, di esplorarci, di abitare in tutti gli angoli della nostra anima perché in tutti gli angoli si trova sempre Dio! Il figlio minore, della parabola, ad un certo punto dice al padre “Dammi la parte di patrimonio che mi spetta, voglio andare a vivere per conto mio”. Questo figlio, può essere ciascuno di noi, che decide di abitare lontano da Dio, che decide di costruirsi da sé, di vivere indipendentemente da Dio.

Ma che cosa accade?
Nella parabola è chiaro: per un po’ si vive, si utilizzano tutte le risorse a disposizione, ci si arrangia come si può – naturalmente ciascuno di noi è dotato di diversi talenti, li possiamo usare e mettere tutti a frutto. Però può arrivare salutarmente un momento nella vita in cui sperimentiamo un po’ di “nausea” per questo tipo di vita. Nella vita di ciascuno di noi può accadere “qualcosa”, che ci scuote da un sonno, ci fa capire che forse la vita da noi condotta fino a quel momento non ci soddisfa più, non è la vera vita! A questo povero ragazzo della parabola “accadde” la fame: c’era la carestia ed ebbe fame. Può accadere altro. Succede come se un avvenimento (può essere esterno, può essere interno) ci scuota e ci chiediamo: “Ma dov’è la vera vita e il sogno, la realtà e la fantasia? Nella vita che sto vivendo adesso, o in quella che mi presenta il richiamo che sto sentendo dentro?” Che è accaduto? Eccoci nell’avventura delle seconde mansioni! In questo stadio in cui ci scuotiamo da un sogno, sentiamo l’insoddisfazione della vita: quello che viviamo, che facciamo normalmente non ci basta più.

Ecco, questo non succede una sola volta nella vita, può succedere a varie tappe, a vari livelli di profondità, ma penso che l’abbiamo sperimentato tutti! Ad un certo punto non ci basta più quello che abbiamo vissuto fino a questo momento e, al tempo stesso, sentiamo dei richiami verso un qualcosa di più profondo che forse all’inizio non sappiamo neanche cosa sia. Può essere una parola sentita, può essere anche un film, una canzone, che ci scuote; può essere un avvenimento forte nella nostra vita, magari doloroso, che ci porta improvvisamente, anche forse brutalmente, ad un altro livello di profondità nell’esistenza; una malattia; un lutto; una difficoltà grave che ci scuotano.

Perché prima non ci scuotevano queste cose?
Perché magari prima, mi riferisco alle prime mansioni, si viveva ad un livello estremamente superficiale di vita. Teresa dice che in quello stato siamo muti e sordi, cioè non abbiamo affinato l’udito spirituale per sentire qualcosa di più profondo di quello con cui viviamo quotidianamente e siamo sordi e muti! In pratica siamo isolati in noi stessi, nel nostro piccolo mondo, un mondo fatto di piccole cose dalle quali ci lasciamo pigramente appagare, soddisfare: “la giornata è andata bene, magari sono stata con degli amici, una bella telefonata, mi sono potuta godere (quando ho potuto) una piccola vacanza, ho la mia famiglia, che mi basta…che voglio di più?”; appagata senza pensare a quale senso più profondo possano avere tutte queste cose e non mi faccio problemi.

Non mi faccio problemi: vivo appunto in me stesso come isolato. Ma, appunto, può intervenire un qualcosa che invece mi scuote da questa apparente tranquillità. E in queste seconde mansioni, dice Teresa, quando iniziamo a percepire che esiste qualche altra cosa oltre il mangiare, il bere, il dormire, comprare, vestirsi…(le cose pratiche della vita) a questo livello iniziamo allora a sentire qualche altra voce: è la voce di Dio, che in qualche modo ci ha raggiunto. Ci può raggiungere attraverso un episodio, attraverso la parola di un amico, un’omelia ascoltata, un discorso, un brano di musica, un attimo in cui siamo assorti in noi stessi e stiamo guardando qualcosa che ci piace molto, anche un bello spettacolo della natura, e sentiamo come un richiamo profondo, un’avvertenza che oltre a quello che viviamo, praticamente, c’è qualcosa di più profondo! Ecco che allora l’udito spirituale inizia ad aprirsi e siamo, dice Teresa, non più sordi. Sentiamo, però è un momento in cui siamo ancora muti, nel senso che non sappiamo rispondere a queste chiamate di Dio. Neppure noi sappiamo quello che veramente che ci stia accadendo, forse non ci siamo ancora abituati, non abbiamo dimestichezza con queste cose, avvertiamo la nostalgia di qualcosa d’altro con la “A” maiuscola, ma non sappiamo poi gestirlo, ed entriamo in una lotta salutare, una lotta tra i richiami dell’esistenza, del divertimento, della tranquillità facile alla quale probabilmente eravamo abituati e l’avvertenza che quel richiamo più profondo può chiederci qualche cosa, ma qualche cosa che ci impegni, cioè che ci chiede un aut-aut.

Ci si sente divisi un po’ tra le due attrazioni, l’attrazione per una vita più superficiale, ma più facile, più spensierata e un impegno con quel Dio che sottilmente e misteriosamente ci sta attraendo. Ma capiamo che se ci metto a parlare con Lui, la vita non può essere più quella di prima; ci dobbiamo impegnare in qualche cosa. Penso che sia capitato a tutti noi, in un determinato momento della vita, vivere questa tensione. Quando S. Agostino aveva iniziato a capire che Dio era affascinante, che Cristo era affascinante, passò un bel periodo di lotta tra l’attrazione e passione che lo trainava verso la sfera sensibile (era innamoratissimo anche della donna dalla quale aveva avuto un figlio) e le esigenze che la vita secondo Dio gli chiedeva. Iniziava a capire che se andava verso Dio, qualche taglio sostanziale nella sua vita lo doveva dare. Allora, si mise a pregare il Signore: “Convertimi Signore, ma non subito!”. E’ tipico! E ci consola che grandi santi abbiano vissuto queste battaglie: le possiamo allora vivere (e vincere) anche noi! È un momento sicuramente doloroso, faticoso, ma estremamente importante perché decide un passaggio importante nella nostra vita spirituale. Da che cosa è dato questo dolore? Dal fatto che, entrando dentro queste mansioni, entrano anche i vari animaletti, che ci portiamo dietro. Possono essere esterni a noi (allettamenti che vengono dall’esterno) ma possono anche abitare dentro: possono essere le nostre passioni.

Molto concretamente: un sentimento di rancore verso una persona che ci portiamo dietro anche quando preghiamo; oppure un desiderio così forte che non mi lascia in pace neanche quando sto pregando; o ancora qualche dipendenza, che mi distrae in maniera brusca da Dio (oggi può essere, ad esempio, la dipendenza da internet, dal computer). Possono essere dipendenze anche più dannose nei riguardi della salute; passioni, affetti… insomma, qualcosa che ci abita dentro. Queste cose noi ce le portiamo dietro perché queste mansioni non sono a compartimento stagno, ma sono intercomunicabili e permeabili tra loro, quindi può accadere che passando alla seconda mansione non ci siamo accorti che qualche animaletto (della prima mansione) è entrato dentro con noi e ci può dare noia. Però quella preghiera, che comunque abbiamo vissuto pur distrattamente, da Dio non è avvertita in maniera distratta: Dio ci ama, ci aspetta dall’interno della mansione, della dimora centrale. Lui insiste e dal centro, dal profondo della nostra anima continua a mandare richiami, che noi sulle prime possiamo anche non avvertire come richiami di Dio, ma come nostalgie profonde; come richiami a momenti di silenzio, di solitudine; desiderio di mettere da parte per un attimo il caos che ci circonda, compresi i nostri problemi quotidiani, problemi anche di un certo spessore, problemi anche seri di sussistenza e avvertiamo il bisogno di tagliare con tutto e metterci in solitudine, in disparte. Là per là magari possiamo anche pensare di essere “soli con noi stessi”: in realtà c’è una “Presenza” che ci ha attirato e che – se anche non l’avvertiamo subito – è presente e continua ad attirarci, provocando la nostalgia di Lui!

Questa, direbbe Teresa di Gesù – in un’altra sua opera, non nel castello – è lo stadio di tutti noi quando iniziamo a pregare. Come quando si deve tirare su l’acqua dal pozzo per annaffiare un orto: la fatica nel tirare su il secchio dal pozzo, è la fatica di mettere a tacere tutto il resto, di assecondare queste attrazioni del Signore, queste nostalgie di Lui, facendo anche noi la nostra parte. Non possiamo, infatti, assecondare queste nostalgie di Dio se teniamo, per esempio, la radio continuamente accesa ad alto volume, se non ci costringiamo un attimo a non pensare a quello o a quell’altro per concentrarsi con Lui, su di Lui! È il momento della lotta e delle perseveranza oppure della perseveranza nella lotta. E’ un momento molto faticoso, ma molto salutare. Può darsi che riusciamo poco, che magari i momenti di preghiera, di amicizia con Dio, di compagnia con Dio, siano molto brevi, però il Signore li apprezza. Per fortuna c’è Lui, che apprezza, valuta tutto, comprende la fatica che facciamo. Lui si è fatto uomo: da quando si è fatto uomo, Dio comprende da dentro la nostra fatica, comprende cosa significhi per noi creature allontanarci da tutto un mondo che ci gira attorno, che ci entra dentro.

Comprende cosa significhi auto-strapparci da questo mondo per aderire a Dio; conosce e apprezza ogni sforzo che facciamo e per ognuno di essi si fa sentire ancora di più: ci aiuta in qualche modo. Al tempo stesso, però, questa fatica ci può portare anche a fallimenti. Può darsi, infatti, che quando crediamo di aver vinto noi stessi, ricadiamo. Possiamo anche tornare ad  assecondare le passioni fino al peccato, fino a qualcosa di contrario alla volontà di Dio… Altro momento altrettanto prezioso! Dio normalmente, da buon pedagogo, ci lascia molto a lungo in questa lotta perché in essa impariamo la perseveranza e ci irrobustiamo. La lotta, la caduta ci portano, infatti, ad avere una più giusta conoscenza di noi; i fallimenti ci mettono davanti tutta la nostra fragilità, la nostra povertà, portandoci alla conquista più importante: l’umile conoscenza di noi. I fallimenti e le cadute ci mettono nella verità di noi stessi. Magari qualche volta ci ribelleremo: a chi non è mai accaduto che, sbagliando, la prima reazione avuta sia stata quella di giustificarsi? Ma, a forza di sbagliare, cominciamo a giustificarci sempre meno, impariamo l’umiltà e impariamo una cosa molto importante nella vita dello spirito: che noi possiamo veramente poco.

Tutto quello che possiamo è la determinazione. La S. Madre Teresa usa una sua tipica espressione: “determinata determinazione”. Determinazione è la forte volontà di proseguire una strada, ma questo non vuol dire pensare o ritenere di essere infallibili. Tuttavia per noi è molto importante, in questo momento di lotta, deciderci per Dio o per il mondo o per noi stessi: fare la scelta tra Dio e il nostro io. Questo va fatto con tanta determinazione, altrimenti si costruisce sulla sabbia e non sulla roccia. Non si può decidere di andare a Dio soltanto quando Dio ci favorisce di gusti, di dolcezze spirituali ecc…, a Dio ci andiamo perché abbiamo capito che è il senso della nostra vita. I fallimenti, la constatazione della nostra povertà, della nostra fragilità, ci insegnano che noi non riusciremo mai ad andare avanti nella strada di Dio con le nostre forze; è solo Dio che ci porta e ci mette nell’atteggiamento di umiltà che alla fine ci fa volare nella strada verso di Lui. Teresa dice che l’umile conoscenza di noi stessi è quel pane con cui è necessario mangiare tutti i cibi per quanto raffinati siano. Dove per cibi lei intende tutti gli stadi di preghiera, di amore, di amicizia con Dio, da quelli più superficiali a quelli più profondi. Per quanto siamo arrivati ad un’unione profonda con Dio, dovremmo sempre ritornare a fare un bel lavaggio nella conoscenza di noi stessi, benché con discrezione.

Se Dio, ad un certo punto ci attira a sé e ci perdiamo nella sua bellezza, allora non ci resta che rimanere così …stupiti. E se Dio ci chiama a questo stupore e noi ci nutriamo, ci beiamo in quello stupore, allora certo in quel momento sarebbe da sciocchi voler per forza ritornare a meditare a quanto io sia povero, a quanto non lo meriti, ecc… Insomma, dobbiamo lasciarci portare lì dove ci porta Dio: è Lui che conduce. E non dobbiamo neppure scoraggiarci se, nonostante tutti i propositi fatti, cadiamo. Mai scoraggiarci. Scoraggiarci significa porre la fiducia in noi stessi: le cadute servono proprio a dissuaderci da questo. Può accadere, ad esempio, che ci rattristiamo perché non riusciamo a pregare quel numero di preghiere che ci eravamo prefissati: questo significa aver riposto la fiducia in noi stessi, confidando di riuscirci come se tutto dipendesse solamente da noi. Ma molte volte è Dio stesso, che ci lascia nella nostra povertà proprio per educarci all’umiltà e a confidare soprattutto in Lui. Questa quindi è la lotta, la croce che bisogna prendere quando iniziamo a pregare. Dobbiamo dare per scontato che non sarà facile e nei momenti di difficoltà in cui non riusciamo a stringere amicizia con Dio e magari le sirene del mondo e anche del nostro io prendono il sopravvento, dobbiamo chiedere maggior aiuto al Signore. Dice Teresa che questo è il momento di abbracciare la croce come ha fatto Gesù nel Getsemani: nel momento della prova Egli ha pregato più intensamente.

Il figlio prodigo è l’emblema della persona che, andata fuori dal castello, poi rientra. Perché rientra? Rientra perché moriva di fame e perciò ha ripensato al padre. Non è stato un pensiero sublime o di contrizione a riportarlo al padre, è stato il crampo dello stomaco, un bisogno. Può capitare anche a noi che un bisogno così pratico ci faccia ripensare al Padre, a Dio.
Come possiamo ritornare a Dio?
Come possiamo tenere fisso lo sguardo su Dio per essere continuamente attratti da Lui?
Teresa dice: “fissate gli occhi in Dio!”
Noi lo possiamo fissare perché si è rivelato nel volto di carne di Gesù.
Quando Filippo dice a Gesù “Facci vedere il Padre e ci basta”, Gesù gli rispose: “Tanto tempo sono con voi e ancora non mi hai conosciuto, Filippo? Chi vede me vede il Padre!”. Allora anche noi siamo invitati in questa lotta a tenere, come il figlio prodigo, lo sguardo fisso verso Cristo che ci rivela la bontà del Padre, che ci aspetta. Questo sguardo è la preghiera delle seconde mansioni, che continuerà anche negli stati più profondi di amicizia con Dio. Ma inizia qui. Non si tratta qui di pregare con tante parole, non significa di stancarci o di fare grandi meditazioni, sforzandoci con tutte le nostre potenze. Si tratta piuttosto di un movimento semplicissimo dell’anima, che fa anche riposare. Da qui le famose parole di Teresa: “guardalo che ti guarda”, “cercami in te”. Teresa ci suggerisce di rappresentarci Cristo dentro di noi e di raccoglierci pensando a Lui: “Immaginate che vi sia vicino e considerate l’amore e l’umiltà con cui vi istruisce. Se vi abituerete a tenerlo vicino ed Egli vedrà che lo fate con amore, che cercate con ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma come suol dirsi non potrete mai più togliervelo di torno. L’avrete con voi dappertutto e vi aiuterà in ogni vostro travaglio”. Si tratta di pensarlo con amore: la preghiera è tutta qui.

Abbiamo tutti fatto l’esperienza, di aver voluto molto bene a una persona. Qualunque cosa facciamo, non possiamo toglierci di mente la persona amata. Possiamo lavorare, possiamo studiare, possiamo far qualunque cosa, ma è come se ce l’avessimo nello sfondo di tutto il nostro agire. Se poi terminiamo di fare qualche cosa che impegna particolarmente la nostra attenzione, ecco che quel volto amato torna più prepotentemente, più consapevolmente alla nostra presenza, alla nostra memoria. Se questo Volto amato è quello di Gesù, questa è la preghiera, niente di più! Se abbiamo una difficoltà, ne parliamo con Lui. Ugualmente se abbiamo una preoccupazione… Se abbiamo una gioia, gliela comunichiamo anche a Lui con un sorriso! Se ci abituiamo a farlo e ci sforziamo in questo esercizio, ecco che entriamo in uno stato di colloquio amicale ed abituale con Gesù, che è l’essenza della preghiera. “Non vi chiedo – dice Teresa – di concentrarvi tutte in Lui, di fare chissà quali sforzi: vi chiedo solo che Lo guardiate e chi vi può impedire di volgere su di Lui gli occhi della vostra anima sia pure per un istante?”. Istante dopo istante si può stare una vita a fissarlo.

Dobbiamo quindi abituarci a questo movimento semplicissimo del cuore, guardare Dio e potrà accadere di accorgerci che, prima ancora che noi guardassimo Lui, Lui ci sta guardando e continua a guardarci. Un altro stato dell’abitante della seconda mansione lo possiamo ricondurre all’atteggiamento del secondo figlio della parabola del figlio prodigo. Anche lui è un abitante delle seconde mansioni. Mentre ancora stiamo lottando, può accadere che – non avendo concentrato ancora tutta l’attenzione del cuore in Dio – ci guardiamo un po’ attorno, guardiamo i nostri sforzi. Guardando troppo noi stessi, tendiamo a giudicare gli altri sulla base dei nostri sforzi e se non li vediamo a livello dei nostri, giudichiamo. Ecco allora il fratello maggiore, il quale, vedendo che il minore ha sperperato tutto con le prostitute (non si è mica comportato come lui, il maggiore, che è sempre stato a casa a servire il padre ecc…), prorompe con il giudizio di condanna. Teresa avverte: “attente, vivete profondamente il vostro rapporto con Dio e non vi interessate di quello che fanno gli altri”. Si riferisce al giudizio, soprattutto al giudizio di condanna. Viviamo come se in questo mondo fossimo noi soli con Dio. Piano, piano nel cuore da questo rapporto emergerà anche la realtà del prossimo da aiutare, ma nascerà da un fondo di amore, non di giudizio. La preghiera, dice Teresa: “è uno stare da soli a soli, intrattenersi in amicizia con colui dal quale sappiamo di essere amati”. Allora lasciamo che nella preghiera Lui ci suggerisca quali sono le cose che in noi ci allontanano da Lui. Quali sono le dipendenze, che ci impediscono di fare lo strappo decisivo e di buttarci tra le sue braccia. Possiamo chiedergli di aiutarci e possiamo anche ringraziarlo perché Lui non si stanca mai di noi, perché nonostante le nostre innumerevoli fragilità, cadute ed inciampi, Lui continua ad amarci e attirarci. Quanti di noi, abbiamo già sperimentato queste attrazioni intime, dolcissime che vengono da Lui: è Lui che non si stanca di noi, ha scommesso tutto su di noi fino a crearci, e allora ringraziamolo anche per questo.

Signor mio,
come ardire di domandarti nuove grazie
dopo averti servito così male
e dopo aver custodito i tuoi doni
con tanta negligenza?
Come fidarsi di un’anima
che tante volte ti ha tradito?
Che farò io dunque,
o Consolazione dei desolati
e Rimedio di chi Ti chiama in suo aiuto?
Dovrò forse nascondere i miei bisogni,
aspettando in silenzio
che Tu me ne apporti il rimedio?
No, davvero, Signore,
perché Tu,
o mia Delizia,
sapendo che i nostri bisogni sono molti
e che nel mostrarteli proviamo sollievo,
ci incoraggi a domandare,
promettendoci di non lasciare
di esaudirci.
Ma in che modo il nostro amore
potrà esser degno dell’Amato,
se Tu, mio Dio, non lo rafforzi
con quello che Tu hai per noi?
Ah, che non ho alcun motivo di lamentarmi,
avendo io sempre avuto da Te
tali testimonianze di amore,
superiori di molto
a quanto ho saputo chiedere e desiderare.
No, non ho alcun motivo di lamentarmi,
a meno che non sia
per l’eccesso della bontà
con cui mi hai atteso.
Ma che ha da domandarti
una creatura così miserabile come me?
Ti dirò con S. Agostino:
Dammi, o mio Dio, di che darti,
onde soddisfi almeno in parte
al molto che ti devo.
Ricordati che sono Tua creatura,
e dammi di conoscere il mio Creatore
affinché sappia amarlo.
Amen

S. Teresa di Gesù, 5a Esclamazione

Provincia di San Giuseppe

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