Se muoio non sarà una disgrazia

«Ho ricevuto la sua lettera e il telegramma; lei si preoccupa proprio troppo per me, ne sono tutta confusa, non merito che ci si interessi tanto di me. La mia vita non è così preziosa: se muoio non sarà una disgrazia più grande trattandosi di me che di un’altra. Ce ne sono tanti che se ne vanno e vorrebbero restare, che si credono utili e che il buon Dio giudica di prendere, perché, dopo la morte, tutto non andrà che meglio. Questo non mi impedisce di pregare molto perché la Santa Vergine mi guarisca: aspetto con grande impazienza un pellegrinaggio per Lourdes e certamente, se sono necessaria alla mia famiglia, guarirò, poiché non è la fede che mi manca; e nemmeno il desiderio di vivere: l’avvenire mi sorrideva da qualche tempo. La mia malattia ha gettato un po’ d’acqua sul fuoco, ma non è ancora completamente spento.

Lei mi domanda, mia cara sorella, una cosa che mi costa molto, cioè di andare dal medico senza avere bisogno di lui. Non mi ha già detto che non c’era nulla da fare e che i rimedi erano ordinati per far piacere ai malati? Ne ho abbastanza! Lei vuole che egli constati se il male ha fatto progressi? Per questo, io posso informarla più di lui, giacché lo so molto meglio. Egli mi domanderà, come ha fatto quando ci sono andata con mio fratello, il mio parere in proposito, poiché il progresso non è abbastanza evidente perché egli se ne possa ricordare da una consultazione all’altra. Quando gli avrò segnalato i progressi, che vuole che [il medico ] mi dica? Non parlerà dell’operazione, certissimamente, essa è meno necessaria che mai. insomma, se lei desidera proprio che vada a consultarlo, non la voglio contrariare, lei è così buona con me.

Senta, se lei è d’accordo, non parliamo più della mia malattia; la cosa comincia a diventare noiosa, lasciamola dunque da parte e parliamo di cose più allegre. L’abbraccio di tutto cuore, mia cara sorella, e la ringrazio mille volte; andrò ad ogni modo a vedere il dottore, per farle piacere. Tante cose care a tutti» (Lettera di Zelia Martin alla cognata Elisa Céline Fournet).

 

 

Cari amici,

all’inizio di ogni mese voglio consegnare alla vostra riflessione una lettera di santa Zelia, la mamma di santa Teresa di Gesù Bambino. Ha concluso la sua vita terrena il 28 agosto 1877, sono passati 140 anni ma la sua testimonianza è più che viva che mai. I santi sono sempre attuali. Si avvicina la settimana santa, il tempo in cui la liturgia c’immerge nella passione di Gesù. Ed ho scelto una lettera che Zelia scrive nelle prime settimane di quello che sarà l’ultimo anno della sua vita. Una visita medica, fatta in dicembre, su pressante invito del marito, ha evidenziato la presenza di una massa tumorale che il dottore giudica inoperabile. Le parole del sanitario non lasciano spazio alla speranza. La scienza si arrende dinanzi al male. Zelia può contare solo sulla Provvidenza di Dio.

Quando riceve la diagnosi Zelia sta per compiere 45 anni, ha cinque figlie: la più grande non ha ancora compiuto 17 anni, la più piccola (Teresa) ha 4 anni. Avrebbe molte e buone ragioni per ribellarsi o quanto meno per recriminare. E invece, resta salda nella fede, come i cedri del Libano. Zelia non è insensibile. La notizia della malattia giunge come un terremoto che scuote la casa della vita e mette tutto a soqquadro. Zelia conosce la fatica e la sofferenza eppure non aveva messo in conto un’esperienza così dura. È pronta a lasciare questa vita ma si preoccupa per il marito e le figlie. Per queste ultime in modo particolare, come leggiamo in questo frammento: “Ho lavorato per quattro, e quattro capaci di lavorare senza perdere tempo. Ho condotto una vita dura tanto che mi costerebbe molto ricominciarla, credo che mi mancherebbe il coraggio. E proprio ora, che finalmente potrei respirare, vedo il segno della partenza, come se mi dicessero: «Tu hai fatto abbastanza, vieni a riposarti». Ma no, non ho fatto abbastanza, queste bambine non sono allevate. Ah, se non fosse per questo, la morte non mi farebbe paura” (LF 205, 7 giugno 1877). Sono parole che lasciano intravedere il cuore di una mamma che, dimentica di se stessa, sente la responsabilità dei figli. Sono parole che le mamme possono ben comprendere.

In questa lettera chiede alla cognata, giustamente preoccupata, di non parlare sempre e solo della malattia. Non vuole attirare l’attenzione su di sé. In una lettera precedente, indirizzata alla cognata, unica e preziosa confidente in questo tempo di prova: “Andiamo dunque avanti così e il più allegramente possibile” (LF 181, 5 gennaio 1877). Non chiude gli occhi per non vedere. Non mette la testa sotto la sabbia. Al contrario, affronta la nuova avventura con il realismo di una donna concreta ma anche con la fede di chi si sforza di vedere tutto con gli occhi di Dio.

Ed è quello che dobbiamo chiedere anche noi. La vita riserva passaggi imprevisti, a volte ci troviamo catapultati in esperienze dolorose che avremmo volentieri evitato di fare. La grazia da chiedere, e da chiedere umilmente, è quella di vivere tutto a partire dalla fede, tutto con uno sguardo di fede, tutto come un dono di Dio. Ad alcuni tutto questo appare come una splendida utopia. Ma la testimonianza di tanti santi, e non solo di quelli canonizzati, dice che è possibile vivere così. Vi invito a meditare le parole di santa Zelia in questi giorni santi, sono luce di speranza. Buon cammino a tutti.

 

Don Silvio Longobardi
Esperto di pastorale familiare
s.longobardi@puntofamiglia.net

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