Sant’Alberto di Trapani

Alberto fu uno dei due santi antichi dell’ordine carmelitano: per la santità e l’esemplarità della vita veniva chiamato insieme a s. Angelo pater ordinis. Non sono molte le notizie della sua vita, ma restano almeno alcune tracce sicure della sua vicenda. La biografia più antica fu scritta probabilmente poco dopo il 1385. Questa fu alla base di un secondo testo manoscritto di un anonimo carmelitano ancora conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. In seguito altri si disposero a scrivere di s. Alberto; conosciamo le biografie di Vincenzo Barbaro, Teodoricus de Aquis, dal quale ultimo dipendono le biografie di Giovanni M. de Poluciis de Novellara e la Legenda aurea, opere tutte del XV secolo. Nello stesso periodo alcune notizie furono raccolte anche negli elenchi di santi, che vanno sotto il nome di Catalogus sanctorum.

La tradizione confermata da alcuni documenti dice che Alberto nacque verso la metà del XIII secolo a Trapani da Benedetto degli Abbati e da Giovanna Polizi, dopo ventisei anni di matrimonio sterile; questa nota ci richiama grandi esempi biblici: Samuele (1Sam 1,1-2,11) e Giovanni Battista (1,5-25; 57-80). La madre lo promise al Signore avviandolo verso la consacrazione e ne sostenne l’impegno di fronte al progetto di matrimonio del padre, che lo avrebbe più volentieri visto sposo ed erede della fortuna familiare. Alberto entrò tra i carmelitani, già presenti nella città natale e beneficati dalla stessa famiglia. Divenuto presbitero fu inviato a Messina. Tuttavia diversi documenti lo danno presente a Trapani l’8 agosto 1280, quando fu testimone del testamento di Ribaldo Abbati, il 4 aprile 1289 risulta testimone del testamento di Perna, seconda moglie del fu notaio Ribaldo, mentre l’8 ottobre dello stesso anno sottoscrisse come testimone il contratto di enfiteusi di alcune terre in favore di Palmerio Abbati, miles. Alberto viene ricordato come uomo di preghiera, predicatore celebre e ricercato in tutta la Sicilia. Un documento del 10 maggio 1296, una donazione di Palmerio Abbati a favore di donna Perna, lo ricorda provinciale di Sicilia.

Non si ha memoria della partecipazione di Alberto ai vari momenti cruciali vissuti dall’Ordine in quel periodo, o di come egli abbia contribuito al consolidamento e allo sviluppo dell’ordine, ma certamente la sua opera di predicatore e di uomo di carità, di frate che forte dell’esperienza di Dio è capace di riconoscere i bisogni e le necessità degli uomini contribuì molto a far crescere l’apprezzamento dell’ordine in Sicilia. Forse non fu solo per l’antichità che gli venne poi attribuito il titolo di pater ordinis.

Alberto morì a Messina il 7 agosto 1307. L’anno non è del tutto sicuro, ma verosimile. La tradizione ricorda l’episodio della disputa sorta tra i chierici e il popolo al momento di celebrare le esequie: l’affetto e la devozione popolari avrebbero voluto celebrare Alberto come santo, mentre i chierici preferivano una normale messa funebre. La leggenda racconta che, nel bel mezzo della disputa, apparvero degli angeli che intonarono l’Os justi, l’antifona d’introito della messa dei confessori, quasi a dar ragione al sentimento popolare e a confermare la fama di santità di Alberto.

La traslazione delle reliquie sarebbe avvenuta nel 1309 o, com’è più probabile, nel 1317. Il cranio fu portato da Messina a Trapani dal provinciale Cataldo di Anselmo, di Erice. Reliquie di s. Alberto furono sparse un po’ ovunque. Un po’ in tutta la Sicilia si ricordano memorie del passaggio e dei segni miracolosi compiuti da Alberto: ad Agrigento esiste il pozzo le cui acque furono rese dolci dal Santo; a Corleone si conservava il recipiente dell’assenzio; a Petralia Soprana una pietra dove avrebbe riposato; a Piazza Armerina sarebbe stata eretta la prima cappella in suo onore.

Sono molti i miracoli attribuiti al santo da vivo e dopo la morte. Mentre era a Messina riuscì a eludere l’embargo posto alla città di Messina nel 1301 da Roberto di Calabria, poi re di Napoli: per intervento di Alberto una o più navi – le fonti ne ricordano da una a dodici – riuscirono a rompere l’assedio e a portare vettovaglie ai messinesi affamati.

Una caratteristica del ministero di Alberto furono le guarigioni: donò la vista ad un ragazzo accecato, il quale si fece poi carmelitano; diverse donne furono curate da ascessi alle mammelle, altre furono guarite da febbri. Un giudeo epilettico si convertì dopo l’intervento del santo. Accanto alle guarigioni fisiche le leggende ricordano quelle spirituali e in particolare l’attività di esorcista.

La leggenda narra che Alberto, oltre alla liturgia delle ore, recitasse ogni giorno l’intero salterio. Non è possibile dire fino a che punto questa notizia possa essere vera, eppure questa nota è uno spiraglio che ci permette d’intravedere qualcosa della personalità spirituale del santo e del modo di pregare del suo tempo.

L’uso di recitare l’intero salterio non è una stravaganza qualsiasi, ma un’abitudine attestata tra gli eremiti medievali: anche i primi eremiti del Carmelo usavano questo tipo di preghiera, che voleva rispondere al comando del Signore di pregare incessantemente, senza stancarsi. L’eremita nella solitudine della cella scandiva il tempo e accompagnava il lavoro manuale con la recita dei salmi che conosceva a memoria. I salmi, nati come preghiera del pio israelita, erano stati usati anche da Gesù per pregare, perciò, grazie ad un’opportuna interpretazione cristologica, erano divenuti l’ossatura della preghiera comunitaria cristiana. Temi, simboli e immagini del salterio richiamavano alla mente la sostanza del vangelo, per cui monaci, canonici ed eremiti sentivano di pregare “per Cristo, con Cristo, in Cristo”, nella Chiesa e con essa.

La recita del salterio rimanda dunque all’amore per la Parola di Dio raccomandato largamente e in vario modo dalla Regola carmelitana. Tutta la Regola infatti è tessuta di riferimenti diretti e indiretti alla Scrittura, quasi frutto di una lectio divina; ricordiamo alcuni riferimenti espliciti alla Parola: la lettura durante i pasti (Regola 7), la lectio divina (Regola 10), la preghiera liturgica (Regola 11), la celebrazione eucaristica quotidiana (Regola 14), “… la spada dello Spirito … tutto si compia nella Parola del Signore” (Regola 19).

Non è strano: per tutto il primo millennio cristiano la Parola di Dio ha costituito il cuore della preghiera delle comunità e dei singoli. Veniva letta, o piuttosto ascoltata, mandata a memoria e “ruminata” in una continua meditazione, che sfociava nella preghiera. Il primo passo, la lettura, consentiva di comprendere il senso letterale del testo, cosa voleva dire, qual è il suo oggetto. La meditazione non era un fatto puramente mentale o intellettuale, ma piuttosto la ripetizione a mezza voce – che dunque coinvolgeva più organi: bocca, udito, occhi per chi sapeva leggere… – delle frasi della Scrittura. Con la meditazione si spiegava il testo con altre pagine o parole della Scrittura stessa e ci si accostava al senso allegorico (a cosa rinvia questa Parola, di cosa è simbolo?), al senso anagogico (qual è la meta della mia, della nostra vita, della storia?), al senso morale (cosa devo, dobbiamo fare?). A questo punto la persona si sentiva portata dallo Spirito a pregare, a rispondere a Dio che ha parlato con l’orazione. Il cammino continuo e progressivo di conoscenza e meditazione della Scrittura apriva il cuore e la mente alla contemplazione, cioè al riconoscimento gioioso e grato dell’azione di Dio nella storia personale e di tutti. Questo metodo era stato elaborato dai monaci e costituiva il cuore della formazione, assai differente dal sistema “scolastico” elaborato nelle università, più intellettuale, logico, speculativo.

Tutto questo lavorio serviva a far penetrare la Parola nel cuore della persona, che a poco a poco veniva trasformata e si identificava in modo progressivo con Gesù. Nel caso di s. Alberto l’identificazione è forte: egli compie alcuni gesti tipici dell’uomo evangelico, del discepolo del Signore, testimone autentico della sua risurrezione (cfr. Mc 16,9-20): guarisce malati, libera indemoniati, sana acque… Questi gesti possono essere compiuti solo da chi ha incontrato il Signore in maniera forte e decisiva, da chi ha scoperto in Gesù di Nazareth il Messia, il Figlio di Dio (cfr. Mc 1,1; 3,11; 5,7; 15,39).

S. Alberto è stato più volte raffigurato con il libro aperto in mano, o, talvolta, con Gesù Bambino in braccio. Non è un caso: ambedue sono attributi iconografici che indicano il predicatore del Vangelo e s. Alberto lo è stato. Tuttavia, perché si possa essere annunciatori autentici occorre aver incontrato Gesù e questo è possibile primariamente attraverso l’ascolto della Parola. Proprio la consuetudine con la S. Scrittura, nella lectio divina coltivata con purezza di cuore e disponibilità all’azione trasformante dello Spirito, ha reso s. Alberto capace di annunciare il Vangelo. Anche di lui è possibile dire quello che la gente pensava di Gesù: “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22; cfr. Mt 7,28-29; Lc 4,32).

Di s. Alberto si ricorda la straordinaria capacità di parlare alla gente con convinzione e immediatezza. Non sappiamo se avesse studiato in qualche università, o se – come forse è più probabile – la sua formazione fosse stata piuttosto di tipo monastico. In ambedue i casi va considerata la centralità della Parola di Dio, la lettura sapiente, continua e appassionata della Sacra Pagina, come veniva definita la Bibbia in quel tempo. Formato sulla pagina biblica ed evangelica, Alberto ne aveva assimilato lo spirito ed era capace di tradurlo, cioè di trasmetterlo in modo attraente ed efficace, perché fosse luce e ispirazione per il presente.

Una delle caratteristiche delle nuove famiglie religiose, nate tra la fine del XII secolo in poi, fu proprio la predicazione popolare: non ci si rivolgeva ad assemblee liturgiche, in luoghi e momenti considerati fino a quel momento ufficialmente deputati alla predicazione; il ministero della predicazione fin allora appannaggio dei vescovi o di loro delegati ufficiali, viene assunto anche da semplici frati, se non addirittura da laici. Anche i carmelitani, quasi sin dall’inizio e poi soprattutto dopo il Concilio di Lione II (1274), si dedicarono a quest’attività considerandola una vera e propria vocazione di servizio al popolo di Dio. Perciò i primi due santi dell’ordine, s. Alberto e s. Angelo, furono anche predicatori insigni, anzi di s. Angelo si narra che abbia trovato la morte proprio a causa delle accuse rivolte a un dissoluto nel corso di una predica.

Concludevamo la riflessione precedente dicendo che s. Alberto appare come un vero discepolo del Signore, testimone autentico della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione. In effetti, spese gran parte del tempo e molte energie come predicatore. Non solo, ma la sua predicazione veniva confermata dai prodigi che compiva: non solo annunciava il Vangelo, ma guariva i malati, ridava la vista ai ciechi, cacciava i demoni (cfr. Mc 16,9-20). La parola annunciata si materializzava in gesti di tenera attenzione verso chi aveva davvero bisogno di cura e di vita nuova. Il suo arrivo in un luogo suonava davvero per se stesso come buona notizia, come Vangelo. La sua vita, semplice e coerente, parlava da sé, parlava di Cristo e del suo dono di salvezza e di grazia. La trasparenza di vita gli permetteva di tradurre in gesti concreti la Parola: anche questo esprimeva in certo modo la sua devozione alla Vergine santa: come Maria sapeva dar vita alla parola, era un “generatore di Dio” come avrebbe detto il confratello Titus Brandsma alcuni secoli dopo.

D’altra parte proprio l’attenzione ai bisogni elementari, primari delle persone, alle quali si rivolge è un forte indicatore della sua capacità di parlare a chi più di altri ha bisogno dell’annuncio del Vangelo. La predicazione di s. Alberto non si rivolge a un pubblico distratto, attento più alle forme eleganti del parlare, che non ai contenuti vitali del discorso. Piuttosto, il carmelitano va al sodo: corre incontro a uomini e donne che hanno bisogno di una parola di salvezza, di vita, di speranza e a loro, agli ultimi, si rivolge con la forza dell’amore, della fede e della speranza. Perciò la sua parola risulta efficace e forte, capace di produrre gli straordinari effetti di guarigione interiore ed esteriore, per i quali è venerato come taumaturgo.

Un altro attributo iconografico di s. Alberto è il giglio bianco, simbolo di purezza. Ciò vuol dire che la sua vita risplende come esempio di virtù e di candore, riconosciuto e venerato dal popolo di Dio come dono e richiamo per tutti. La castità di s. Alberto è divenuta luminosa espressione di una scelta radicale, definitiva e totale di Dio.

Altri due elementi della leggenda di s. Alberto, in modo differente, convergono sul medesimo valore della purità. Si racconta, infatti, che la madre, Giovanna, grata al Signore che glielo aveva donato dopo lunga attesa, desiderava per il figlio una vita di totale consacrazione al Signore. Il padre, invece, avrebbe preferito vederlo sposato, magari con la figlia di qualche nobile o ricco mercante: un modo consueto per migliorare la condizione sociale ed economica della famiglia, oltre che per garantire al figlio un futuro agiato e ricco di prospettive. La leggenda prosegue, dicendo che il giovanetto, messo di fronte alla scelta, preferì le intenzioni spirituali della madre alle mire utilitaristiche del padre, a sua volta persuaso dalla stessa moglie.

Se ciò non bastasse a manifestare la scelta radicale di Dio, la leggenda racconta la tentazione alla quale fu sottoposto il novizio Alberto. Una graziosissima fanciulla avrebbe cercato di conquistare il favore del giovane, distogliendolo dalla decisione presa. Ma, si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi: l’inganno del tentatore fu scoperto da Alberto, che ne riconobbe il vero volto, non del tutto nascosto dall’avvenenza della giovane. Il novizio si affrettò a scacciare il demonio affidandosi nuovamente alla protezione divina. Alcuni dipinti raffigurano Alberto che calpesta, in segno di vittoria, il demonio raffigurato con forme femminili ma con i piedi caprini, inequivocabile indizio della sua vera natura. Attenzione: l’immagine non va interpretata nel senso di disprezzo della donna, della sua dignità e della sua bellezza, tutt’altro! Basta pensare a quante donne si è rivolto s. Alberto per aiutarle, consolarle, o guarirle nel corpo e nello spirito. Il racconto va compreso in termini simbolici: anche le realtà più belle possono tramutarsi in tentazione, se distolgono dalla realizzazione della volontà di Dio e dalla propria chiamata. Non è stato fatto ma, in modo analogo, si potrebbe raccontare la storia di una ragazza chiamata al matrimonio, distolta dal demonio che la convince ad entrare in convento… Anche in questo caso cedere alla tentazione sarebbe ben tragico!

Tanta attenzione e insistenza su questo punto non sono casuali: si tratta di modi figurati – e ciò vale sia per i dipinti, che per le “immagini” della leggenda – per raccontare una caratteristica di s. Alberto, vero carmelitano, seguace di Maria, la Virgo purissima. La “purità” vissuta da Alberto non è semplicemente un fatto fisico, ma primariamente spirituale; tanto meno si tratta di castità vissuta come rinuncia all’amore umano e alla fecondità naturale. Piuttosto serve a tradurre in termini esistenziali la scelta fondamentale, radicale di Dio e del suo progetto di salvezza, che richiede piena disponibilità e completa dedizione. Alberto si è lasciato afferrare da Dio; si è messo a suo totale servizio; gli ha consegnato vita e capacità; ha accolto la sua chiamata come dono e impegno di vita.

La purità di s. Alberto esprime la sua piena conformazione a Cristo, l’adesione semplice e totale alla sua parola di vita, la trasparenza con cui la sua persona manifestava, comunicava la scelta fondamentale di Dio. Come Maria, s. Alberto ha saputo accogliere la parola che gli veniva rivolta e ha saputo renderla viva, attuale nella sua esperienza di vita. La sua persona è resa così trasparente dallo Spirito Santo che parole e gesti servono a rendere esplicita testimonianza dell’azione di salvezza che il Signore continua a compiere attraverso l’impegno dei suoi discepoli.

Che s. Alberto abbia professato e vissuto la povertà non c’è dubbio. Ne è prova la scelta di entrare nella comunità dei frati carmelitani, già inquadrati nel grande gruppo dei Mendicanti, cioè di quei religiosi che non facevano dipendere la propria sussistenza da rendite o guadagni certi, ma privilegiavano la semplicità di vita, la “mendicità incerta”, andando in giro a predicare e mangiando di quanto la gente stessa offriva loro, secondo le possibilità e la generosità. Tutto mettevano in comune, e condividevano ogni bene, considerandosi fratelli, dunque membri della medesima famiglia, alla quale provvedeva il Padre comune.

S. Alberto aveva fatto della povertà un’autentica scelta di vita: la sua provenienza da una famiglia agiata e di una certa rilevanza sociale non costituì un ostacolo. Avrebbe potuto fare una scelta diversa, entrando nel clero cittadino, in qualche abbazia, o in una canonica. Scelse invece di porsi accanto ai minores, agli ultimi del suo tempo, condividendone stili e condizioni di vita. Ciò non vuol dire che non abbia saputo far tesoro dell’esperienza e delle conoscenze familiari: niente di più facile che se ne sia servito in qualche occasione. Ad esempio è possibile che nell’episodio dell’embargo di Messina s. Alberto abbia avuto dalla sua qualche appoggio influente, che lo ha favorito, aiutandolo a far giungere le vettovaglie per la città. D’altra parte anche in quell’occasione è chiaro che la motivazione che spinse il santo all’azione fu la fame della gente e il senso di responsabilità verso chi, in quel momento, aveva davvero bisogno di aiuto. Il precetto evangelico di dar da mangiare agli affamati veniva prima d’ogni opportunità, calcolo e sicurezza.

La povertà evangelica implica la lotta per la vita, la giustizia, la verità, la pace… S. Alberto, povero per scelta, sapeva riconoscere le autentiche necessità delle persone che aveva accanto a sé e aveva imparato a intervenire con generosità evangelica, secondo quanto richiesto dalle circostanze.

Un aspetto conseguente e correlativo alla povertà è quello della penitenza e dell’austerità di vita, proprie dell’Ordine del Carmelo, ancora assai vicino alle origini. La tradizione ricorda almeno due fatti legati a questa dimensione pratico-spirituale della vita di Alberto: la fiasca dell’assenzio che si conservava a Corleone e la pietra di Petralia Soprana, dove avrebbe riposato. Quest’ultima ci apre uno spiraglio sul modo di vivere del Santo, spesso in movimento lungo le strade assolate della Sicilia, per predicare, guarire, consigliare, sanare spiriti… Il Carmelitano avrebbe potuto usufruire di qualche accomodamento migliore; non gli mancavano amicizie e appoggi familiari, che avrebbero potuto garantirgli sistemazioni migliori. Eppure sceglieva di viaggiare come un povero. Povero tra i poveri, cercava alloggi di fortuna come riparo durante i viaggi: stalle, grotte e ripari naturali non gli erano estranei.

L’assenzio amaro era diventato un condimento abituale nei giorni penitenziali, il venerdì per esempio. S. Alberto lo utilizzava per mescolarlo ai cibi e alle bevande, rendendole così meno gradevoli al gusto. Era un altro modo per mortificare i sensi. Oggi abbiamo un rapporto differente con il cibo e abbiamo della penitenza un concetto diverso, tuttavia non è giusto giudicare il modo di agire degli antichi. Resta tuttora valido il valore di una vita povera e austera, che punta all’essenziale, senza perdersi in cose inutili, impegnata nella costruzione di rapporti autentici, mai utilitaristici, con gli altri e la realtà circostante. I poveri evangelici, come s. Alberto, sanno di non poter contare su nessun altro all’infuori di Dio e della sua grazia; accettano come dono quello che ricevono dai fratelli e dalle sorelle, senza pretendere nulla, e di tutto ringraziano. La povertà evangelica rende capaci di riconoscere i bisogni degli altri e di provvedere con generosità.

La santità si manifesta principalmente come vita cristiana vissuta in pienezza, soprattutto nella dimensione della carità. Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte definiva la santità: «“misura alta” della vita cristiana ordinaria» (n. 31). Ciò vale anche per s. Alberto di Trapani. Anch’egli fa parte di quella schiera di santi ricordati e venerati per una vita radicale, intensa, impegnata in ogni dimensione, in modo particolare per l’attenzione generosa verso le necessità e i bisogni della gente del proprio tempo.

S. Alberto, frate carmelitano, fu davvero fratello per tante sorelle e fratelli che si rivolgevano a lui perché lo riconoscevano come uomo di Dio, capace cioè di manifestare la grandezza dell’amore di Dio per loro in situazioni delicate e di difficile soluzione. Alberto fu uomo della carità concreta e generosa in più di un’occasione, attento alle necessità di tutti, particolarmente dei più poveri. Non è un caso che tra i molti miracoli che si narrano operati dal santo diversi siano rivolti a donne sofferenti per malattie, ma anche ebrei, i quali una volta guariti si convertivano al cristianesimo, riconoscendo nell’intervento di s. Alberto la mano del Messia Gesù.

La carità di s. Alberto si manifesta in situazioni assai differenti, che si possono classificare in tre grandi gruppi: un primo gruppo di gesti riguardano collettività e problemi di carattere sociale; un secondo gruppo malattie fisiche; un terzo problemi psicologici o spirituali. In questa e nella prossima scheda prenderemo in esame ognuno dei tre gruppi.

La prima dimensione riguarda dunque la sfera sociale, comunitaria. La tradizione narra almeno due interventi miracolosi avvenuti nelle città di Messina e di Agrigento e che hanno come obiettivo il sollievo di popolazioni in difficoltà.

Il primo e più famoso fatto riguarda la rottura dell’embargo posto da Roberto di Calabria (poi re di Napoli) alla città di Messina nel 1301: per intervento di s. Alberto alcune navi – da una a dodici secondo i diversi racconti – riuscirono a rompere l’assedio navale e a portare vettovaglie agli affamati messinesi. Questo episodio viene ricordato anche da una fonte estranea all’ordine: ne parla, infatti, al capitolo X la Cronica dell’Anonimo Romano, nota anche con il titolo di Vita di Cola di Rienzo. Oltre all’evidente sollievo per la cittadinanza stremata, l’intervento di Alberto fu anche un chiaro segnale di pace: perché deve essere sempre la gente comune a soffrire per le lotte e le dispute dei potenti? Il dominio dello stretto di Messina, l’unificazione dei regni di Sicilia e di Napoli, l’egemonia in Europa… Tutti interessi che non toccavano certamente gli abitanti di Messina. S. Alberto si fece in qualche modo portavoce di un’esigenza altrimenti inascoltata, riuscendo a rendere meno pesante la situazione di guerra per tante famiglie.

Ad Agrigento, il santo avrebbe reso dolci le acque di un pozzo, del quale si conserva ancora la memoria. In questo caso è chiaro il riferimento biblico all’episodio del pozzo di Gerico sanato dal profeta Eliseo (cfr. 2Re 2,19-22). D’altra parte, il carmelitano Alberto è figlio di quella stirpe profetica nata da Elia, del quale Eliseo fu erede diretto. Altra gente ricevette così la possibilità di attingere acqua potabile e buona senza eccessiva difficoltà; in tempi nei quali la distribuzione dell’acqua a domicilio era ancora del tutto fuori dell’immaginazione comune… L’acqua resta uno dei beni più preziosi del creato e non sempre davvero disponibile per tutti. Troppe volte interessi particolari, non sempre confessabili, hanno fatto dell’acqua un’arma di ricatto e di oppressione, uno strumento di potere. Il gesto profetico di s. Alberto ci ricorda la sacralità dell’acqua e la sua destinazione per la vita, di tutti senza esclusione.

La carità di s. Alberto ha anche una dimensione squisitamente personale: più volte lo incontriamo intento a curare malati nel corpo e nello spirito con la delicatezza e l’attenzione che distinguono le persone autenticamente spirituali. La cura dei mali fisici, la direzione spirituale e la pratica dell’esorcismo sono tre aspetti complementari della vita di Alberto. Tutta la persona è coinvolta dall’annuncio evangelico, che si traduce in guarigione e liberazione, interiore ed esteriore, da qualsiasi genere d’impedimento o legame che ostacoli una vita pienamente umana e spirituale.

Malattia, sofferenza, dolore, sono sempre e comunque situazioni che vorremmo evitare, ci creano disagio e le affrontiamo assai malvolentieri; quando poi capitano a persone già deboli, fisicamente, moralmente o socialmente, diventano ancor più pesanti da sopportare. Giovani e donne erano categorie particolarmente bisognose di attenzione e di cura, ma altrettanto poco tutelate dalla società del tempo. Alberto si pone accanto a loro, si mette a loro disposizione, offrendo aiuto concreto e fattivo a chiunque abbia bisogno di guarigione e non ha alcun’altra possibilità, se non quella di rivolgersi a Dio. Alberto è l’uomo di Dio, che manifesta la sua tenerezza materna e cura i mali dei figli e delle figlie più deboli.

Si ricordano diverse guarigioni operate sia in vita che da morto: a Palermo, un ragazzo accecato dalla sorellina, durante un gioco sciagurato, torna a vedere e in seguito sarebbe diventato carmelitano; un altro giovane di Lentini, guarito grazie alla fede della madre che lo aveva coperto con un indumento del Santo, sarebbe anch’egli divenuto frate, ma la gratitudine e la riconoscenza non sono sempre segno di vera vocazione, infatti qualche tempo dopo lasciò l’Ordine. La cura fisica si traduce talvolta in accompagnamento e discernimento spirituale in vista della decisione di vita.

Una donna di Trapani fu aiutata dal Santo durante un parto difficile, che la stava strappando alla vita assieme alla sua creatura: Alberto riuscì a confortare la giovane, che diede felicemente alla luce una bambina. Non meraviglia dunque che le donne si rivolgessero al Santo per essere curate da ascessi alle mammelle, o dalla febbre, soprattutto quella puerperale, allora causa di frequentissime morti di parto per mancanza d’igiene. La morte di una donna, di una sposa, di una madre, oltre ad essere dolorosa per chi la subiva prematuramente e per i suoi cari, costituiva una calamità sociale non indifferente; la mortalità infantile e delle madri era assai alta in quel tempo e s. Alberto si mette a servizio della vita e della serenità familiare.

Non guardava però solo al fisico. S. Alberto ebbe con il demonio un conto sempre aperto; oltre ad affrontarlo in battaglie personali, fu anche esorcista. Una volta, a Licata, una donna si recò da lui per chiedergli di liberare la figlia che sospettava preda della possessione diabolica. Il Santo si recò dalla fanciulla e riuscì a liberarla dalla presenza maligna con un gesto di umiltà: porgendo l’altra guancia, dopo che era stato colpito con uno schiaffo dalla giovane. Una persona è pienamente libera solo quando tutte le sue dimensioni – corpo, anima e spirito – sono totalmente rivolte a Dio e alla sua volontà. Benché di rado permessa dal Signore, la possessione del Maligno impedisce una vita piena; l’uomo di Dio può ridonare consistenza, padronanza di sé e docilità alla volontà del Signore.

Ciò che conta di questi gesti, al di là della storicità e della portata, è il loro significato: ci indicano in s. Alberto il santo, il profeta, l’uomo di Dio, che risplende ancor oggi davanti a noi come uomo nuovo, pienamente evangelico, così unito al Signore e compenetrato della sua Parola, che ogni suo gesto diventa prolungamento efficace ed eloquente dell’azione risanante e liberante di Cristo.

Oggi è convinzione abbastanza diffusa di un rapporto tra cristiani e persone di altre religioni assai differente da quella usuale nel passato, anche recentissimo, e tuttora in molti altri ambiti religiosi e culturali. La fede è una realtà così intima che interessa e segna la globalità della vita di una persona, ne orienta la visione del mondo e le scelte personali ad ogni livello. Certamente, anche l’istruzione, la cultura, l’ambiente sociale influiscono non poco sul modo di percepire la propria religione e quelle altrui. Oggi, poi, soprattutto l’occidente secolarizzato è malato di relativismo, per cui non esiste una sola verità, i principi morali sono sottoposti a critica e al vaglio esclusivo, sovrano, della coscienza (o dell’opportunità?) personale; per cui molti ritengono indifferente, o più banalmente equivalente, ogni forma di espressione religiosa.

Il problema è serio e non si risolve solo in termini propagandistici, ricorrendo a slogan o a crociate. D’altra parte non si tratta solo di dialogare – perciò di conoscersi, accogliersi, apprezzarsi… – ma di annunciare il Vangelo con una testimonianza autentica. Ciò significa porsi con umiltà e pazienza accanto a ogni uomo o donna, rispettandoli nella dignità, apprezzando il loro punto di vista e la loro cultura, adattandosi ai loro tempi e ai loro ritmi. Soprattutto occorre proporre la nostra esperienza della risurrezione di Cristo dalla morte, dunque della salvezza e della vita nuova sperimentata per mezzo dell’unione con Lui nella Chiesa. Questo però scoprendo che il valore universale dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo implica anche il dono dello Spirito Santo all’umanità e la sua azione nella vita di ogni persona, anche prima dell’annuncio evangelico esplicito. Un discorso particolare va fatto per il rapporto con la religione ebraica: Giovanni Paolo II si è rivolto agli ebrei chiamandoli “nostri fratelli maggiori”, con atteggiamento assai diverso da quando li si considerava “perfidi” perché “deicidi”. Quale l’atteggiamento di s. Alberto?

Almeno in due diverse occasioni egli ebbe a che fare con giudei. Una volta il Santo salvò dall’annegamento tre di loro in pericolo di annegare presso Agrigento; un’altra volta guarì dall’epilessia un ragazzo ebreo di Sciacca. In ambedue i casi le leggende parlano di una confessione di fede esplicita e del successivo battesimo. Questi episodi vanno compresi come esempi di evangelizzazione, di dialogo, di proselitismo o come conversioni forzate? Il discorso va fatto senza pregiudizi, tenendo presente il contesto storico e la mentalità del tempo. Lungo la storia si ricordano varie occasioni in cui carmelitani ed ebrei entrarono in contatto. Il convento di Tolosa fu fondato su un terreno donato da un ebreo grato a Maria per la cui intercessione era guarito. Diverse leggende, oltre a quelle riguardanti s. Alberto, narrano di rapporti più o meno facili tra carmelitani ed ebrei. Qualche convento era situato presso i quartieri ebraici e divenne luogo di predicazione per la loro conversione. Tuttavia si ricordano episodi interessanti di rispetto per i membri del popolo, di cui avevano fatto parte anche Gesù e Maria: in Francia, nella Riforma di Touraine (secoli XVII-XVIII), i maestri invitavano i novizi a salutare con rispetto gli ebrei che incontravano, mentre il venerabile Alberto Leoni († 1642) rimproverava i suoi novizi che avevano schernito alcuni ebrei per strada.

Forse in proposito ha pesato il modello eliano: Alberto e i carmelitani ritenevano un punto d’onore annunciare la vera fede ai membri del popolo eletto a imitazione del Profeta (1Re 18,20-40). Oggi il discorso si sposta sul piano del dialogo e del riconoscimento dei fondamenti comuni, da curare assieme all’annuncio della fede, ma l’esempio di s. Alberto ci ricorda che la testimonianza fondamentale consiste nella carità autentica, delicata e generosa. Solo chi si fa “tutto a tutti” (1Cor 9,22) è capace di far sperimentare la salvezza di Dio e favorisce l’incontro personale con Cristo.

Che s. Alberto abbia avuto una profonda devozione alla madre del Signore è attestato da più d’una delle antiche leggende; d’altra parte sarebbe stato ben strano pensare ad un carmelitano delle prime generazioni privo della nota mariana propria dell’Ordine. Certamente non possiamo neppure attribuire ad Alberto tutte le caratteristiche della pietà mariana sviluppata dal Carmelo nei secoli seguenti. Tuttavia se ne possono indicare alcune, comuni al tempo in cui egli visse e che si ritrovano in testi dello stesso periodo.

Maria fu inizialmente venerata dai carmelitani come la Signora del Carmelo (del luogo dove sorse l’eremo iniziale) e della Terra Santa, perché madre di Cristo, signore feudale di quella terra acquistata a prezzo del suo sangue. Per questo motivo, oltre che per una scelta dovuta al contesto teologico ed ecclesiale, che portava a scegliere Maria come riferimento spirituale per coloro che intendevano impegnarsi per la riforma della Chiesa, i carmelitani dedicarono a lei l’oratorio costruito in mezzo alle celle e così s’impegnarono al servizio della Vergine.

Videro in lei la donna nuova, obbediente alla parola di Dio, pienamente disposta a discernere la sua volontà e a realizzarla con purezza e umiltà. In questo contesto risulta naturale contemplare la verginità di Maria e comprenderla come purità: virtù interiore, psicologica e spirituale prima ancora che fisica, che costituisce uno dei punti di forza della spiritualità di s. Alberto. L’obbedienza alla parola di Dio, che si traduce in obbedienza al superiore e in vita fraterna, può svilupparsi appieno in un animo puro, trasparente alla luce di Dio, capace di contemplare la bellezza della sua volontà e di tradurla, pur nella libertà e con fantasia, nel proprio quotidiano. La pagina dell’annunciazione diventa in questo contesto uno dei riferimenti naturali e significativamente attraenti per i carmelitani delle generazioni iniziali.

Di conseguenza, la madre del Signore è compresa come la “tutta bella”, che realizza al meglio la novità portata da suo figlio. È la donna nuova, evangelica, il prototipo di ogni cristiano, autentica “nuova Eva” vera madre dei viventi e dei credenti. La bellezza abbraccia l’intera esistenza di Maria, per cui è compresa come immacolata e assunta in cielo, pienamente associata alla santità radicale del figlio e risorta con lui. Non meraviglia perciò che, sulla scorta di interpretazione dei Padri della Chiesa e poi degli scrittori medievali, anche i carmelitani riconoscessero nella nuvoletta che sale dal mare, impetrata dalla preghiera di Elia (1Re 18,44), un’immagine di Maria immacolata e assunta in cielo.

Un’antica tradizione collega s. Alberto alla statua della Madonna di Trapani: potrebbe essere stata realizzata e portata a Trapani quando il Santo era provinciale di Sicilia. È difficile dire quanto sia fondata questa tradizione, ma nella bellezza lucente dell’immagine di marmo dipinto, nella parziale torsione del busto della Vergine, che le consente di guardare il volto del figlio, nel suo sorriso dolce e triste nello stesso momento, si possono scorgere alcuni riflessi della sensibilità con cui anche Alberto deve aver contemplato la madre e sorella dei carmelitani. Nello slancio pieno di affetto del bambino verso la madre, può aver riconosciuto il riflesso della propria devozione, dell’amore tenero e intimo, per nulla sdolcinato, anzi impegnativo ed esaltante di chi sa che amare e venerare Maria vuol dire anche impegnarsi a seguirla nella piena adesione al progetto di salvezza del Padre per l’umanità. Essere devoti di Maria significa, oggi come al tempo di s. Alberto, sentirsi accompagnati e sostenuti nel cammino di fede, in un concreto percorso di carità umile e silenziosa ai fratelli e alle sorelle, aperto alla speranza della vita nuova e piena che Cristo ci dona nel suo Spirito.

 

Dalla rivista Rallegratevi, IV anno (2006), nº 19 – inserto.

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