Ricordi di un pellegrinaggio in Terra Santa 6

6° tappa: Tiberiade-Gerico

Gerico

Saliti sull’autobus per Gerico ci addormentiamo tutti subito, tanta è la stanchezza accumulata. Mi risveglia lo sbattere, sul mio ginocchio, di un mitra di una giovane valchiria dell’esercito israeliano che sta passando fra i sedili: siamo circondati da soldati! Ma non abbiamo fatto niente, neanche rubato la frutta stavolta! No, non c’entriamo niente per fortuna, è soltanto un’allegra comitiva di soldati e soldatesse, evidentemente dello stesso squadrone, che sta cercando posto sui sedili, per tornare alla loro base dopo qualche giorno di permesso. Intanto l’autobus s’immette in autostrada e corre veloce nella depressione giordanica, giù giù verso il sud: il panorama a ovest si fa sempre più desertico, lunare, mentre a est un po’ di verde sopravvive solo lungo la striscia del fiume.

Chiedo a uno dei soldati quanto manca alla fermata per Gerico: mi guarda un po’ stranito, come se gli avessi chiesto quanto manca per Parigi. Mi dice che non lo sa, non c’è mai stato.  Che strano… possibile? Mi dico. La soldatessa al suo fianco, sempre col mitra in grembo, è tutta presa da un videogiochino sul suo smartphone lilla… sicuramente a Gerico non c’è mai stata neanche lei.

Intanto P. Paco ci sveglia tutti e ci fa scendere nel mezzo del nulla, in aperta autostrada. C’è solo una via traversa e polverosa che si dirama dall’autostrada e che s’inoltra nella foschia all’orizzonte: ci incamminiamo. Dopo qualche decina di metri campeggia un enorme cartello tutto rosso di cui riporto a memoria qualche frase: ATTENZIONE. State per entrare nella zona A. A ogni cittadino israeliano è vietato l’ingresso: se prosegue oltre questo limite viola la legge dello stato di Israele e mette a repentaglio la propria vita.

Ora capisco, e ricordo le spiegazioni di Asaf sulle zone A, B, C in cui è suddivisa la West Bank. Il soldato a cui avevo chiesto informazioni sull’autobus non era mai stato davvero a Gerico, per loro è assolutamente off limits, e il tragitto dell’autobus certo non prevede la fermata: Gerico. Siamo noi che siamo scesi alla fermata più vicina, lungo la strada, per arrivarci con i nostri piedi. E dopo qualche chilometro ci arriviamo: posto di blocco. Qui i soldati sono in servizio, la cosa si fa seria: Michele, che è esperto di queste cose, mi fa notare i grossi M16 che portano a tracolla invece dei piccoli mitra (Galil, si chiamano) dei militari in permesso che avevamo visto sinora. P. Paco va a identificarsi, ma non ci lasciano passare a piedi. L’unico modo per entrare a Gerico è chiamare dei taxi che vengano a prenderci al posto di blocco per poi portarci in centro città. Questo impongono i protocolli di sicurezza e c’è poco da discutere. In compenso i militari si mostrano gentili, ci offrono dell’acqua da bere e anche qui un giovanissimo soldato, biondo e pallido come un tedesco, si mostra curiosissimo di conoscere questi singolari pellegrini. Mi dice che non se ne vedono affatto spesso di turisti che, come noi, se ne vanno in giro a piedi nel deserto! Anche lui è socievole e gentile come Asaf e, per la mia piccola esperienza, devo smentire la diceria che i soldati israeliani siano tutti irritabili e nervosi. Ma ci salutiamo subito perché arrivano i nostri taxì (sgangherati furgoncini riciclati) che ci porteranno al nostro alloggio: la parrocchia di Gesù Buon Pastore tenuta da tre frati francescani. Gerico sfreccia veloce oltre i finestrini: visione completamente diversa dalle città israeliane che avevamo visto finora. Qui, in piena zona A, e molto più che a Nazareth, tutto è sgarrupato e scompigliato. E’ una città, inoltre, quasi completamente musulmana e lo si vede dai molti minareti (che sparano preghiere quasi ogni ora) e dai caoticissimi mercati. Ma io con l’occhio cerco di individuare il famoso sicomoro su cui salì Zaccheo per guardare Gesù passare, come è raccontato in Luca 19: dovrebbe essere sul percorso del nostro taxi, ma non lo vediamo. Pazienza. In compenso, nei locali della Parrocchia, ci aspettano dei veri letti! Che non vedevamo da almeno una settimana. Questa sarà la nostra base per i prossimi due giorni in cui visiteremo il Giordano, le rive del Mar Morto e Qumran.

Sulle rive del Giordano

I nostri fedeli tassisti (è uno spasso vedere come P. Paco conversa con loro da vero arabo, trattando e ritrattando e gesticolando calorosamente, toccandosi reciprocamente le guance e le pance come se questi gesti fossero intercalari del discorso!) ci portano come prima tappa sul luogo dove si tramanda che Gesù sia stato battezzato da S. Giovanni Battista. E’ un posto molto semplice: c’è una piccola banchina in legno, il Giordano – che qui ha un torbido letto di una decina di metri –  e la Giordania sull’altra riva.  Proprio quando arriviamo c’è una gran ressa per un battesimo di un giovane che sta avvenendo in quel momento. Devono essere i membri di qualche comunità evangelica tedesca od olandese.  Dopo il rito e l’immersione “a tuffo”, abbracci e applausi e flash per il nuovo fratello. Intanto, altri turisti (o pellegrini, è difficile capirlo) si fanno allegramente fotografare in sgargianti costumi da bagno, a riva. P. Gianni ci dà appuntamento sul taxi e ci diamo un lasso di tempo di silenzio e raccoglimento personale: è forse l’unico modo per cogliere qualcosa dello spirito di questo luogo in un contesto così chiassoso e scomposto. Ma penso che anche al tempo di Gesù, nella calca dei curiosi e disperati che insieme a Lui accorrevano al Battista, doveva essere un bel casino. Che l’acqua doveva essere altrettanto torbida. Eppure lo Spirito Santo scese allora, come è realmente sceso ora su questo giovane battezzato, pur fra mille inappropriatezze, tutte umane, tutte nostre.

Mar Morto e Qumran

Il giorno dopo deponiamo anche noi il ruolo di pellegrini e diventiamo semplici turisti, ma solo per qualche ora, per fare un doveroso bagno nel Mar Morto. Lo stabilimento balneare ci offre ogni comodità, ma in compenso le acque del Mar Morto sono quanto di più fastidioso si possa immaginare: torbide e fangose, salatissime al punto che ne basta uno schizzo in un occhio per farlo lancinare di bruciore per un quarto d’ora almeno. Lasciato lo stabilimento ci rechiamo invece a Qumran, il celebre sito archeologico dove sono emersi migliaia di preziosissimi reperti biblici, scoperto negli anni ’40 del secolo scorso grazie a una…capra. Capra che si era persa in una grotta e il cui pastore, per cercarla, trovò questo impensabile tesoro. Tesoro costituito da centinaia di papiri e pergamene che, grazie al clima particolarmente secco della zona, si sono conservati ottimamente nei secoli in una dozzina di grotte. Per la maggior parte sono testi in ebraico dell’Antico Testamento o di tradizione apocrifa, messi al sicuro dagli esseni i quali abitavano in una specie di monastero nei paraggi, vicino le grotte, prima della distruzione del loro sito per mano delle truppe romane nel 68 d. C., ai tempi della prima rivolta giudaica. Lo visitiamo: di questa sorta di cenobio precristiano, che aveva tanto di scriptorium dove erano copiati i numerosi testi biblici che poi sarebbero stati rinvenuti, sono rimaste oggi imponenti evidenze archeologiche, fra cui mi colpiscono in particolar modo le spesse mura e le grandi e numerose vasche, richieste dai numerosi riti di purificazione descritti dai regolamenti (anch’essi giuntici nei rotoli rinvenuti) della comunità essena che qui viveva, in un clima di severissima ascesi, di fervida attesa messianica.

Ma in questa zona non dovettero abitare soltanto gli esseni. Forse anche cristiani rifugiati, in seguito alle primissime persecuzioni. E’ quanto spinge ad ipotizzare la presenza, nella grotta 7 (e da qui possiamo vedere la via ad essa diretta, oltre i vetri del ristorantino dove mangiamo una scialba zuppa di cipolle), di un frammento papiraceo (classificato come 7Q5) che riporterebbe due versetti del Vangelo di Marco. Identificato come tale, nel 1972, da un papirologo gesuita, P. O’Callaghan, questa scoperta da allora ha scatenato un inferno di opposizioni, ma anche di autorevoli conferme, da parte di eminenti membri della comunità scientifica mondiale di biblisti, papirologi, paleografi e filologi. Se l’identificazione del frammento con Marco è reale – è la questione è ancora apertissima, dal momento che il frammento riporta solo una manciata di lettere – gli studi esegetici neotestamentari ne sarebbero rivoluzionati, in quanto fra la vita di Gesù e la prima attestazione del Vangelo di Marco non passerebbero neppure 20 anni: questo scardinerebbe tutte le ricostruzioni e le ipotesi di lavoro degli studiosi delle prime comunità cristiane le quali, secondo l’orientamento attuale degli studi, avrebbero sviluppato e cristallizzato nei vangeli le loro riflessioni su Cristo (le cosiddette “cristologie”) nell’arco di molti decenni e subendo molte influenze, mettendoci molto “di proprio”. Dimostrare invece che il processo che ha portato alla stesura dei primi vangeli è avvenuto non in 50 o 70 anni, ma in meno di 20, implica affermare che le cristologie delle prime comunità cristiane si sono sviluppate molto più a partire dall’origine nuda e cruda, Gesù, e dal ricordo di quanto ha detto, che non piuttosto dalle successive rielaborazioni teologiche e proiezioni di fede dei credenti in Gesù: in sintesi, la distanza fra il “Cristo della fede” e il “Gesù della storia”, distanza che per alcuni esegeti è un abisso, sarebbe notevolmente accorciata. Di qui si capisce l’entità della posta in gioco in questo dibattito, che è lungi dall’essere chiuso. Ma quali sono i versetti che sarebbero individuabili nel frammento 7Q5, gelosamente conservati dal deserto per duemila anni e riemersi grazie a una capretta indisciplinata? Eccoli:

“Non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito. Compiuta la traversata, giunsero a Gennèsaret e approdarono” (Mc 6,52-53). Versetti che non sembrano affatto fuori luogo rispetto a questo contesto: la Provvidenza sembra di nuovo aver giocato con i luoghi di questa Terra Santa, dove la geografia e l’agiografia si confondono… Toccando le spesse mura che questi “puri” esseni toccavano, e oltre le quali avevano tagliato il mondo fuori, non posso trattenere preghiere dal mio cuore per le loro anime, che mi ricordano tanto – mi si perdoni l’accostamento forse irrispettoso – i personaggi del Deserto dei tartari di Buzzati: una vita ad aspettare nel deserto, e poi? Le spade dei romani. Mentre il Messia era già passato. Quanta acqua, quante purificazioni scorse invano in questo deserto senza pietà dove anche il bell’azzurro del Mare che lo attraversa nasconde sterilità e morte. Ma quanti cristiani – penso io che, pur battezzato da bambino, son arrivato alla fede a 25 anni – corrono lo stesso rischio di aspettare una vita invano, “di non comprendere il fatto dei pani”?

Padre Giacomo Gubert ocd

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