Lettere familiari

Prefazione alle “Lettere familiari” di Zelia Guèrin e Luigi Martin

Può la lettura di queste Lettere invogliare famiglie, madri, padri, comunità religiose e giovani a pensare la santità come qualche cosa di desiderabile? Una domanda simile la pone il Preposito Generale dell’Ordine carmelitano nella sua lettera scritta in occasione della canonizzazione dei coniugi Martin: È passato un secolo e mezzo da quando Luigi e Zelia, a mezzanotte del 12 luglio 1858, si sposarono ad Alençon, e molte cose sono radicalmente cambiate, sia nella Chiesa sia nella cultura europea. In che senso il loro matrimonio e la storia della loro famiglia possono essere esemplari ai nostri giorni, quando il modello stesso di famiglia e la prassi prevalente sono così lontane da quanto da loro creduto e vissuto?

Lo scopo di questa introduzione è di prendere avvio da queste provocazioni per condurre il lettore a comprendere il valore testimoniale che proprio oggi può assumere la storia di questa santa famiglia narrata nelle Lettere di Zelia. La Chiesa, attraverso questa canonizzazione di due coniugi intende forse dire a tutti che santi si può diventare anche insieme, da coniugi, da figli, da fratelli e sorelle, a partire da come si vive la fede all’interno della famiglia, l’esperienza umana fondamentale, oggi così aggredita sotto i più disparati aspetti, ma che il Verbo stesso di Dio non ha disdegnato di sperimentare nascendo nella famiglia di Nazareth.

Che cosa ci accingiamo a leggere in queste 217 lettere, scritte da Zelia tra i suoi 32 e 46 anni? Il genere epistolare, in particolare nel suo caso, ci permette di entrare nell’elemento più autentico della sua forte personalità e, perché no, della sua santità. Zelia quando scriveva, e dedicava a questo molto tempo rubandolo ai pochissimi momenti di riposo, non avrebbe mai immaginato che le sue missive sarebbero diventate documenti di dominio pubblico. Scriveva semplicemente quello che accadeva in lei e nella sua famiglia per renderne partecipi i parenti lontani, il fratello, la cognata, le figlie. Scriveva per prendersi cura dei legami, per amicizia, per incoraggiare nelle difficoltà o per comunicare i suoi pensieri. Scrivere le piaceva e le riusciva bene. Lo utilizzava anche come un momento di raccoglimento, un tempo speciale per collegarsi in profondità con le persone che amava. Scriveva per dialogare e aspettava le risposte prima di riavviare la corrispondenza.

Leggendo le sue lettere, i genitori di oggi possono capire che cosa significhi essere presente. Presente per il destinatario, per le figlie ammalate, per Luigi, presente a se stessa e a Dio Padre grazie a quella ritualità sacra che scandiva le ore di casa Martin, quasi come in un monastero benedettino, labora et ora. Se c’è un dato che contraddistingue la società liquida nella maniera di vivere la quotidianità è la stanchezza. Siamo tutti sempre così affaticati! Per stanchezza i legami si svuotano e si inaridiscono fino sciogliersi troppo facilmente, per distrazione perdiamo il senso della presenza, dell’attenzione all’altro. Per debolezza i nostri figli ricevono ciò di cui non hanno veramente bisogno: surrogati, palliativi. Ma a tutto questo c’è rimedio. Zelia ci fa vedere come sia possibile correre, indaffararsi, lavorare sodo senza perdere il senso profondo della ferialità semplicemente perché lei sa dove attingere forza e coraggio per vivere. In Dio, nell’esercizio della sua Presenza. E il quotidiano, quello felice dei momenti sereni, e quello drammatico delle malattie e delle morti, diventa materia dell’offerta a Dio. Tavola e altare, camera da letto e ambone non sono luoghi antitetici. La chiesa si fa casa e la casa si fa chiesa a partire dalla semplicità di un quotidiano semplicemente accettato, amato e offerto al Signore. La presenza di Luigi e Zelia alle loro figlie è una presenza educativa, attenta all’essenziale e, proprio per questo, capace di comunicare la fede. In che modo? Perché fede e la vita si compenetrano come la tavola sa trasformarsi in altare. Dai Martin possiamo allora capire che la fede è come l’amore, non è una cosa, una verità da trasmettere, una tradizione da tenere in vita. È una relazione d’amore e dedizione a Gesù che parte dalla certezza di essere amati per primi da Lui. È una risposta, povera, ma autentica al suo venire a noi. Occorre vederla, toccarla, gustarla. Posso pensare che Dio non si vede, ma posso anche pensare che guardando una famiglia santa si possa vedere la fede. Santa Teresina guardando il papà pregare vedeva il Volto di Dio Padre. Ci domandiamo ogni tanto se i nostri figli ci vedono pregare?

La storia di questa famiglia è profondamente segnata dall’esperienza della morte. Luigi e Zelia hanno avuto 9 figli e 4 di essi hanno perso la vita per motivi che oggi riterremmo assurdi. Nelle lettere di Zelia il lettore si può anche impressionare nel seguire le drammatiche vicende di malattie, morti, lutti e nel constatare i grossi limiti delle cure ai bambini che la medicina del tempo poteva offrire. In mezzo a tutto questo dolore un’esperienza fondamentale però abbraccia e trasfigura le tristi vicende familiari. Si tratta dell’esperienza del cielo. Il cielo è una delle parole più caratterizzanti la fede dei Martin. Anche attraverso i lutti i due coniugi e, assieme a loro, le figlie, sanno che sono in viaggio, che in cielo li attendono i loro quattro angioletti, che la vita è breve e fragile e che siamo chiamati all’eternità. Il cielo è così presente nei discorsi di famiglia che la piccolissima Teresa non esiterà ad augurare alla mamma di morire presto, per poter andare in cielo. Il cielo è nostalgia dell’essenziale, richiamo, apertura all’Incontro con il Buon Gesù, che rimane sempre e comunque Buono, anche quando arrivano le prove più dure. Mai un cenno di protesta. In cielo ci vanno i santi e Zelia nelle sue lettere sprona tutti a desiderare la santità, iniziando a desiderarla fortemente per se stessa. Cosa ci può dire oggi questa famiglia, “malata” di cielo, a noi, che lo abbiamo proprio rimosso schiacciati nell’immanenza del presente? Proteggiamo noi stessi e i nostri figli dalla sofferenza e dalla morte perché non riusciamo a non vederla come la fine. Quanto parliamo di cielo ai nostri bambini? Si può desiderare di andare in cielo senza essere presi per pazzi? Eppure la nostra fede è fondata sulla Risurrezione, il grande e unico fatto che ha reso il Cielo familiare a tutti. Il santo non può non desiderare l’Incontro con Colui che da sempre lo ha chiamato. Desiderare il cielo è un modo per desiderare la santità. Il miracolo che è accaduto ai Martin, così segnati dall’esperienza del cielo, è stato quello di gustarlo anche sulla terra. La santità diventa desiderabile perché risponde all’anelito più profondo di ogni uomo, incontrare l’Amore che resta. I santi non sono uomini che attendono troppo di vivere il cielo, lo desiderano così tanto da iniziare a viverlo sulla terra, anche quando arrivano i dolori. “Come in cielo, così in terra”. Come a loro, così anche a noi sarà possibile desiderare la santità delle nostre famiglie e delle nostre comunità.

Chiara Gubert

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