Il sorriso della Santa

«Uno dei ritrovi giornalieri di noi ragazzi fiorentini era il giardino D’Azeglio. Una mattina d’autunno andavo, secondo il solito, verso quel giardino, ma, giunto in via della Colonna, m’ero soffermato a una vetrina di cartolaio a ustolare certi francobolli esotici che mancavano alla mia scarna collezione.

In quel mentre sentii dietro di me voci straniere. Mi voltai: un signore e una signora accompagnati da una giovinetta, tutti e tre dall’aspetto forestiero, stavano interrogando un passante che, a quanto mi parve, non sapeva insegnare ciò che gli veniva domandato. Mi avvicinai di un passo, con l’improntitudine propria dei ragazzi, e sentii che la giovinetta ripeteva, con accento tutt’altro che toscano, ma chiaro, un nome fiorentinissimo: Santa Maria Maddalena dei Pazzi. Capii subito quel che cercavano, e siccome l’interpellato, un vecchio lindo con gli occhiali, non sapendo cosa rispondere, andava garbatamente scusandosi e stava per allontanarsi, mi feci innanzi e mi offrii per accompagnare quegli impacciati stranieri alla chiesa di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, che era lì vicina in Borgo Pinti. Non conoscevo quella chiesa per motivi di devozione, ma perchè, a differenza di altre, aveva dinnanzi un bell’atrio arioso, mezzo chiostro e mezzo giardino, una specie di pronao fiorito, dove talvolta mi davano appuntamento certi compagni della scuola che era lì accanto. I tre forestieri ebbero fiducia in me e mi vennero dietro. Erano vestiti di scuro, e mi parvero gente semplice, seria, molto diversa da quegli inglesi ricchi e sicuri che a Firenze si sentivano in casa propria. Io sbirciai la giovinetta, che pareva la più impaziente di giungere alla chiesa. Poteva avere 14 0 15 anni; il volto era pienotto, tondeggiante, illuminato da occhi dolci, ardenti, profondi, che mi fecero tale impressione da fare abbassare i miei. Si giunse, in pochi passi, al portale esterno della chiesa, e io feci cenno con la mano che erano arrivati. Il padre e la madre, insieme, dissero più volte: Merci, merci. La giovinetta non disse nulla, ma, quasi per ringraziamento, mi rivolse un così bel sorriso, che turbò stranamente il mio cuore di fanciullo timido. Poi i tre entrarono nell’atrio pieno di sole e di fiori, e io me ne andai verso il giardino D’Azeglio.

Molti e molti anni dopo, un amico prete mi dette da leggere una biografia di Santa Teresa di Lisieux, e appresi, con meraviglia, che proprio nell’autunno del 1888, quando le carmelitane rifutarono di accoglierla novizia perché non aveva ancora l’età prescritta, essa aveva pregato i genitori di condurla in Italia, per chiedere a Leone XIII la grazia di una speciale dispensa. E lessi, con trepida meraviglia, che si era voluta fermare a Firenze, con l’unico scopo di recarsi a pregare sulla tomba di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, che si era trovata, a suo tempo, nel suo medesimo caso.

Ho pensato, qualche volta, di essere stato illuso da un inganno della memoria, ma sono ormai persuaso che la giovinetta che quella lontana mattina d’autunno mi aveva così soavemente sorriso era stata la futura Teresa del Bambin Gesù. I ritratti di lei fanciulla che erano in quel libro combaciavano con il mio ricordo, non affievoliti dagli anni. L’incontro con quei tre stranieri mi era rimasto lungamente impresso: la memoria, a quell’età, è tenacissima. E spesso mi vien fatto di pensare, perdoni Dio questo pensiero, se è figlio di superbia, che il sorriso di Santa Teresa mi abbia accompagnato, senza che io lo sapessi, fino ai misteriosi giorni di una più potente Grazia».

 

Giovanni Papini, Passato remoto.

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