Edith Stein, la preghiera della Chiesa


P. Jesús Castellano Cervera ocd. 

Una lettura teologica 

Das Gebet der Kirche, La preghiera della Chiesa, è un piccolo gioiello della produzione teologico-spirituale di Edith Stein, stupenda figura di donna, di pensatrice, di credente, che compendia in sé ebraismo e cristianesimo(1)


Introduzione  

Das Gebet der Kirche, La preghiera della Chiesa letterariamente si presenta come un breve saggio, richiesto dalla Accademia S. Bonifatius di Paderborn, ma nel quale con intensità ed imprimendo un sigillo personale, l’autrice ha dato anche questa volta l’essenza del suo pensiero e della sua esperienza. E lo ha fatto con quella eccellenza propositiva ed esperienziale che è tipica del suo stile fenomenologico. 

Ma il libro ci appare sempre di più, in una rilettura teologica, come un auto-ritratto spirituale di Edith Stein, in quella sua immedesimazione con la Chiesa in preghiera che ha portato qualcuno a definirla come una vera immagine della Ecclesia orans

Già la sua madre aveva detto di «non avere mai visto alcuno pregare come E. Stein…»(2) 

E un monaco benedettino aveva espresso così la sua impressione, condivisa probabilmente da altri membri della sua comunità, in una lettera alle monache di Colonia dopo aver visto Edith pregare durante la settimana santa a Beuron: 

«Quando la incontrai la prima volta nell’ultimo cantuccio della Chiesa abbaziale di Beuron…la sua figura ed il suo contegno mi fecero un’impressione che potrei paragonare soltanto a quella suscitata dalle rappresentazioni della «ecclesia orans» dell’arte sacra primitiva delle catacombe. Essa richiamava in tutto un tipo dell’epoca dei primi cristiani; le mancavano solo le braccia alzate verso il cielo nella classica attitudine dell’orante. E non è questa un’idea che mi sia saltata in mente chissà come: Edith Stein era veramente il prototipo dell’«Ecclesia», che pur essendo radicata nel tempo, è sollevata al di là di esso nell’eternità, e nella sua intima unione con Cristo, non ha altra missione che quella di realizzare la parola del Signore: «Pro eis sanctifico me ipsum, ut sint et ipsi sanctificati in veritate (Gv 17,16)».(3) 

Edith Stein immagine viva della «ecclesia orans». Ecco una formula espressiva e sintetica per caratterizzare la figura spirituale di Edith Stein, personificazione della preghiera della Chiesa. Di tale esperienza questo piccolo volume è una manifestazione e riverbera una icona vivente. 

L’opera, scritta nel Carmelo di Colonia nel 1936, è frutto della sua sensibilità liturgica, con radici nella sua infanzia e nella sua conversione al cattolicesimo, ma con la sintesi che la sua esperienza di carmelitana compie circa il valore complementare della liturgia e della contemplazione, della preghiera liturgica e di quella personale. 

La richiesta che riceve dalla Accademia San Bonifatius di Paderborn trova una pronta risposta, anche se probabilmente Edith Stein ha dovuto concentrare in poche pagine il suo pensiero.(4) 

Ha diviso l’opuscolo in tre parti, precedute da un breve prologo, e concluso con una bella preghiera della liturgia romana. I titoli di queste tre parti indicano già chiaramente il contenuto: 

  • La preghiera della Chiesa (come) liturgia ed eucaristia,
  • Il colloquio solitario con Dio come preghiera della Chiesa,
  1. La vita interiore: la sua forma e la sua azione. 

Alcune note bibliche e qualche indicazione bibliografica dell’autrice arricchiscono il testo. 

Accanto ad altri piccoli saggi di carattere liturgico della nostra autrice, Das Gebet der Kirche rivela la sua fine sensibilità liturgica. Ma insieme ci rivela che Edith Stein vive nel clima di rinnovamento liturgico che si sperimenta con entusiasmo nella Germania degli anni trenta, preparata da gruppi come il Quickborn di Guardini. Ma si possono trovare le tracce di grandi autori che hanno fatto di Maria Laach e di Beuron, quest’ultima abbazia è la sua patria spirituale, luoghi di rinnovamento liturgico. 

Che Edith si muova nell’ambiente del rinnovamento liturgico lo dimostrano per esempio queste sue parole: «Quando, nelle feste solenni, i fedeli affluiscono nelle cattedrali o nelle chiese abbaziali, quando partecipano attivamente e con gioia alle forme rinnovate della liturgia, dimostrano che la loro vocazione è la lode divina».(5) 

Ma in quest’opera di E. Stein troviamo anche echi sottili della polemica allora in corso in Germania circa alcuni punti chiave del rinnovamento liturgico e nella quale interviene con equilibrio anche R. Guardini con la sua lettera al Vescovo di Magonza contro le esagerazioni dei progressisti e dei conservatori.(6) Ciò viene in evidenza sia nella appassionata difesa della preghiera personale come preghiera ecclesiale, accanto al valore della liturgia, sia dal cenno che ella fa alla distinzione che sembra risalire all’abate di Maria Laach Ildefons Herwegen fra pietà oggettiva e pietà soggettiva, che lei non accetta se si tratta di opporre due valori genuini. «Ne consegue, scrive Edith, che non si può opporre la preghiera interiore, libera da ogni forma tradizionale, «pietà soggettiva», alla liturgia, che è la «preghiera oggettiva» della Chiesa. Ogni autentica preghiera è preghiera della Chiesa: mediante ogni preghiera sincera qualcosa avviene nella Chiesa ed è la Chiesa stessa che prega perché è lo Spirito Santo, che in essa vive, che in ogni singola anima «prega per noi con inenarrabili sospiri».(7) 

Anche per questo intervento pacato e profetico alcune pagine di E. Stein ritrovano posteriori risonanze in alcuni testi del magistero postconciliare della Chiesa cattolica, a proposito della ritrovata armonia fra preghiera liturgica e preghiera personale. 

Prendere in mano questo gioiello, per farne una rilettura teologica, è una gioia dello spirito ed una occasione per mettere in luce alcune linee fondamentali della sua autrice che ha consumato nell’olocausto del suo martirio, come gli antichi martiri, l’offerta ed il sacrificio di quella liturgia di Cristo e della Chiesa della quale ella discorre in questo libro. 

La densità e insieme la semplice linearità dell’esposizione di Edith Stein ci permette di tracciare alcune linee ermeneutiche fra le quali ci sembra opportuno privilegiare, come aspetti della sua anima di «Ecclesia orans», le radici ebraiche della liturgia e della preghiera cristiana, l’aspetto ecclesiale, la sensibilità carmelitana, la forte connotazione antropologica, la stupenda integrazione del cosmo. 

Lo stile di Edith, ormai il suo modo di vedere e descrivere le cose, è quello fenomenologico: sa cogliere il valore e l’eccellenza della liturgia e della preghiera liturgica e di quella personale a partire dall’esperienza spirituale in atto, con tutto il suo essere, calato nel mondo, fra cielo e terra, e arriva così a farci assaporare l’azione stessa del celebrare e del pregare, la dimensione della totalità e della bellezza. 

La nostra rilettura teologica cerca semplicemente di sottolineare alcuni elementi caratteristici dell’opera dando ampio spazio alla voce stessa di Edith Stein, maestra e modello di una teologia e di una spiritualità liturgica. 

1. Preghiera della Chiesa, vita della Chiesa    

Il titolo La preghiera della Chiesa indica subito una convinzione: l’indissolubile unità fra la preghiera e la vita. Autentica vita cattolica sarà sempre la vita liturgica. La vita di chi prega con la Chiesa in Spirito e verità, viene formata da questa preghiera, la preghiera della Chiesa. Una Chiesa che trova la sua sorgente nella Trinità, che è comunione di vita, ma che è già presente in ogni persona. 

In questo modo come la magnifica ouverture di una sinfonia, il breve e denso prologo del libri mette le cose al centro, nella dimensione trinitaria della vita e della preghiera, con la dossologia del canone romano: “Per Lui, con Lui, e in Lui, a Te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Nell’indissolubile unità trinitaria, nel flusso della vita che viene dal Padre per Cristo e nello Spirito e al Padre ritorna nello Spirito per Cristo, si trova il respiro di una vita che, come si vedrà, tutto raggiunge, l’umanità e il cosmo. Di questo duplice flusso ascendente e discendente, con un pizzico di originalità, l’autrice coglie le implicazioni del «per Cristo», «con Cristo» e «in Cristo» quando afferma: 

«Ogni glorificazione di Dio si fa per, con, in Cristo. Per Cristo, perché solo per Lui l’umanità può giungere al Padre e perché la sua esistenza di Uomo-Dio e la sua opera redentrice sono la più perfetta glorificazione del Padre; con Lui perché ogni preghiera sincera è frutto dell’unione con Cristo nello stesso tempo che rafforzamento di questa unione, e perché ogni lode del Figlio è lode del Padre e viceversa; in Lui perché la Chiesa orante è il Cristo stesso – ogni uomo che prega è membro del suo mistico corpo – e perché nel Figlio è il Padre e il Figlio è l’immagine del Padre, di cui rende visibile la maestà. Questo doppio significato di «per», «con» e «in» è la chiara espressione della mediazione dell’Uomo-Dio».(8) 

Ma già qui troviamo una affermazione programmatica che verrà in seguito ripresa: «ogni uomo che prega è membro del suo mistico corpo». 


2. Le radici giudaiche della liturgia e della preghiera   

In Edith Stein come nella preghiera della Chiesa vi è una radice giudaica. Il fiume della Bibbia dell’Antico Testamento, la prima alleanza, feconda tutta la liturgia ecclesiale. E tutto l’opuscolo ne è come una apologia di questa continuità. 

Edith sembra rivivere qui i ricordi dell’infanzia, le preghiere domestiche presiedute dalla madre, la liturgia sinagogale, le feste annuali, in modo speciale le festa di Pasqua e dello Yom Kippur, di cui ella ci aveva lasciato alcuni ricordi nella sua autobiografia. 

Afferma in una nota, quasi a dare continuità alla sua esperienza: «L’ebraismo aveva ed ha ancora una ricca liturgia, per il culto pubblico e privato».(9) 

Ella fa riferimento agli inni salmici del pellegrinaggio, alle berakoth dei pasti, di cui riporta la preghiera del «Qiddush» o benedizione del calice e del vino che precede il pasto del sabato e delle feste. Ricorda la festa ebraica di Pasqua-Pesah, medita a lungo sul tema della presenza e della dimora o «Shekinâh» nella tenda e nel tempio, con l’unzione e la benedizione della casa di Dio, si sofferma spesso su uno degli elementi fondamentali della preghiera eucaristica che viene dalla tradizione giudaica: il Sanctus, la preghiera chiamata Qeduschà.(10) 

Ma soprattutto, come vedremo, evoca la festa, la liturgia e il sacrificio del giorno della espiazione, il Yom Kippur, giorno della sua nascita. Evoca, applicandolo a Cristo e al suo sacrificio il tempio con il recinto del «Santo», che precedeva il «Sancta sanctorum». 

Nel momento di descrivere la liturgia della Chiesa essa sembra rivivere lo stupore della memoria, della continuità, del superamento, oppure della fioritura o trasformazione della liturgia ebraica in liturgia cristiana, a partire da Cristo che Edith non esita a presentare come uomo, ebreo, figlio di Dio: «Sappiamo dagli scritti evangelici che il Cristo pregò come poteva pregare un ebreo credente e fedele alla legge».(11) 

Di questa preghiera descrive i tempi e i luoghi e presenta come culmine la cena pasquale, con una stupenda visione pasquale dell’Eucaristia. 

Quasi rivivendo il rito della Cena pasquale, vissuto da Gesù e concentrato nella grande preghiera del rendimento di grazie del Seder di Pasqua, Edith magnifica il compimento totale in Gesù delle grandi prospettive della pasqua ebraica, divenute realtà piene nel sacrificio pasquale di Cristo: la creazione, la redenzione, il compimento escatologico: 

«Quando il Signore prese il calice, rese grazie: le benedizioni prima dei pasti contenevano un ringraziamento al Creatore e noi sappiamo che il Cristo era solito, prima di compiere un miracolo, rendere grazie alzando gli occhi al Padre che sta nei cieli. Egli ringrazia perché sa di essere esaudito e rende grazie anche per la forza divina che ha in sé, mediante la quale manifesta agli occhi degli uomini la onnipotenza del Creatore. Ringrazia per l’opera di redenzione che ha il potere di compiere e la sua azione di grazie si compie per mezzo di quest’opera, che, in se stessa, è glorificazione della Trinità divina, perché rinnova in pura bellezza l’immagine deformata del Creatore. Possiamo così considerare tutto il continuo donarsi del Cristo sulla croce, nella santa Messa, e nella gloria eterna del cielo – come un solo, grande rendimento di grazie, l’Eucaristia, azione di grazie per la creazione, per la redenzione e per il suo ultimo compimento».(12) 

Con piena consapevolezza Edith afferma che 

«la pasqua della antica alleanza è diventata la Pasqua della nuova alleanza nell’ultima cena del Signore, nel sacrificio della croce sul Golgota, nelle agapi gioiose del tempo tra la Pasqua e l’Ascensione, durante le quali i discepoli riconoscevano il Signore alla frazione del pane, e, nel sacrificio della Messa, nella santa Comunione».(13) 

La chiave di questa trasformazione è la realtà stessa di Gesù ebreo: 

«La vita di orazione di Gesù è la chiave che ci introduce nella preghiera della Chiesa. Abbiamo visto che il Cristo ha partecipato al culto del suo popolo (che generalmente si chiama Liturgia), lo ha unito nel modo più intimo alla sua offerta di vittima e gli ha dato il suo pieno e proprio significato, quello di rendimento di grazie della creazione al Creatore, portando così la liturgia dell’Antico Testamento nella liturgia del Nuovo Testamento». (14) 

Con l’aiuto di uno studio specifico di due ebrei N. Glazter e L. Strauss sul significato della liturgia ebraica presenta l’adempimento delle promesse e la dimensione cosmica dell’Eucaristia partendo dal senso stesso del tempio di Gerusalemme, luogo della presenza, vero microcosmo dell’universo. Vale la pena citare questa pagina stupenda: 

«Questo significato eucaristico della preghiera era già espresso nell’Antico Testamento: l’arca della alleanza e, più tardi, il tempio di Salomone innalzato secondo le indicazioni divine, furono considerati come l’immagine di tutta la creazione, unita nella adorazione e nel culto del suo Signore. La tenda intorno alla quale il popolo ebraico si accampava durante la marcia nel deserto, si chiamava la «dimora della presenza di Dio» (Es. 38, 21) ed era contrapposta «come dimora terrena alla dimora celeste». «Amo la dimora nella tua casa, il luogo della tua gloria», canta il salmista (Sal. 25, 8) poiché la tenda della Alleanza «era il simbolo della creazione del mondo». Come, secondo i racconti biblici, il cielo fu steso come un tappeto, così fu prescritto che i tappeti formassero le pareti della tenda, come le acque della terra furono separate dalle acque del cielo, così il velo doveva separare il Santo dei Santi dagli atri esterni. Il mare contenuto dalle rive era simboleggiato dal mare di bronzo; le luci del cielo erano raffigurate, nella tenda, dal candelabro dalle sette braccia, gli agnelli e gli uccelli rappresentavano la moltitudine degli esseri viventi che popolano l’acqua, la terra e l’aria, e come la terra fu data all’uomo, così il santuario venne affidato al sommo sacerdote, «unto per il servizio di Dio». Come il Signore benedisse e santificò l’opera delle sue mani, il settimo giorno, così Mosè benedisse, unse e santificò la dimora compiuta; come il cielo e la terra, così la tenda doveva essere sulla terra la testimonianza di Dio (Dt. 30,19)».(15) 

Ma anche qui Edith vede una continuità nella liturgia della preghiera della Chiesa, una liturgia vivente, offerta dalla lode perenne dell’ufficio divino: 

«In luogo del tempio di Salomone, Cristo ha edificato un tempio di pietre vive, la comunione dei santi. Egli sta nel mezzo come l’eterno sommo sacerdote e sull’altare Egli stesso è la vittima perpetua. Di nuovo tutta la creazione, i frutti della terra, misteriose offerte, i fiori, i candelabri ed i ceri, i tappeti e il velo, il sacerdote consacrato, l’unzione e la benedizione della casa di Dio, è inclusa nella «Liturgia», solenne ufficio divino. Creati dalla mano di artisti anche i cherubini non mancano e in forme visibili vegliano ai lati del Santissimo, e i monaci, loro «immagini viventi», circondano l’altare del sacrificio e fanno in modo che la lode di Dio continui sempre sulla terra come nel cielo. Le preghiere solenni che essi, portavoce designati dalla Chiesa, recitano, accompagnano il santo Sacrificio, circondano, avvolgono, santificano tutto il «lavoro della giornata» così che dalla preghiera e dal lavoro nasca un solo opus Dei, una sola «liturgia». Le letture tolte dalle sacre Scritture e dai Padri, dai libri liturgici, dalle Encicliche dei Sommi Pontefici sono un canto di lode più ricco all’azione della Provvidenza e al progressivo compimento dell’eterno piano salvifico».(16) 

Tutto è compimento che nulla rinnega delle antiche radici di quel popolo «che sapeva pregare» e al quale lo stesso Dio aveva indicato i tempi, i modi e i luoghi del culto e della preghiera.(17) 

3. Cristo al centro della liturgia e della preghiera    

La chiave della preghiera della Chiesa è la preghiera stessa di Gesù di cui la Chiesa è il suo corpo mistico. Egli è il modello e il maestro, egli è l’ebreo che prega, ma anche il Figlio di Dio nel quale noi siamo stati inseriti nella sua mediazione sacerdotale. 

Edith guarda Gesù. Deve averlo spesso contemplato immerso nella preghiera; per lei è normale la contemplazione della sua umanità, intrisa di dialogo con il Padre e la sua dimensione di solenne intercessione sacerdotale nella prospettiva delle figure e delle tipologie dell’Antico Testamento. 

Abbiamo già citato alcuni testi che parlano di Gesù che prega come un ebreo credente e fedele alla legge. Ma Edith sottolinea la sua preghiera personale e silenziosa: 

«La vita di orazione di Gesù è la chiave che ci introduce nella preghiera della Chiesa. Abbiamo visto che il Cristo ha partecipato al culto del suo popolo (che generalmente si chiama Liturgia), lo ha unito nel modo più intimo alla sua offerta di vittima e gli ha dato il suo pieno e proprio significato, quello di rendimento di grazie della creazione al Creatore, trasformando cosi la liturgia dell’Antico Testamento nella liturgia del Nuovo Testamento. Ma Gesù non ha solo partecipato al culto divino ufficiale. Forse anche più di frequente gli Evangeli parlano della sua preghiera solitaria nella tranquillità della notte, sulla cima dei monti, nel deserto, lontano dagli uomini. Quaranta giorni e quaranta notti di preghiera precedettero la sua azione pubblica e prima di scegliere e di inviare i suoi dodici apostoli si ritirò per pregare nella solitudine della montagna. Durante la preghiera sul monte degli Ulivi si preparò a salire sul Golgota e ciò che Egli in questa gravissima ora della sua vita chiese al Padre ci è stato trasmesso in alcune brevi parole, che possono guidarci come stelle nell’ora della nostra agonia: Oh Padre, se vuoi allontana da me questo calice, ma non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Queste parole sono come un lampo che per un momento illumina la vita più intima dell’anima di Gesù, il mistero insondabile del suo essere umano-divino, i suoi dialoghi con il Padre, dialoghi che sicuramente continuarono ininterrottamente per tutta la vita. Cristo pregava non soltanto quando si allontanava dalla folla ma anche quando si trovava tra gli uomini».(18) 

Tuttavia il colpo di genio di Edith Stein sta nella presentazione della preghiera sacerdotale di Gesù, il cap. 17 di Giovanni; come la grande preghiera del Sommo sacerdote della Nuova alleanza, alla luce della teologia e della liturgia, per lei tanto cara del Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. 

Situa prima di tutto questa preghiera fra la Cena e la Croce, come compimento della Pasqua celebrata, nella quale nasce la Chiesa; e preludio del suo sacrificio pasquale: 

«Una sola volta Egli ci ha permesso di guardare a lungo e profondamente nel segreto dei suoi colloqui e fu poco prima di partire per il monte degli Ulivi, dopo la fine dell’ultima Cena, nella quale abbiamo riconosciuto il vero momento della nascita della Chiesa. «Poiché Egli aveva amato i suoi… li amò fino alla fine». Egli sapeva che questa riunione sarebbe stata l’ultima e voleva donarsi ancora in così grande misura! Bisognava si trattenesse per non dire di più; sapeva che essi non potevano capire, che non potevano ancora comprendere nemmeno quel poco che avevano ricevuto; poiché doveva venire lo Spirito di verità ad aprire i loro occhi».(19) 

Ed ecco la presentazione della preghiera del Sommo Sacerdote: 

«E dopo che ebbe detto e fatto tutto ciò che era possibile dire e fare, alzò gli occhi al cielo e parlò al Padre in loro presenza. Noi chiamiamo questa preghiera la preghiera sacerdotale di Gesù, ma anche questo dialogo solitario con Dio era prefigurato nell’Antico Testamento. Una volta all’anno, nel giorno più sacro dell’anno, il giorno della Riconciliazione, il sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi, davanti alla faccia del Signore, per pregare per sé, per la sua casa, e per tutta la comunità di Israele. Aspergeva il trono di misericordia con il sangue di un giovane toro e di un agnello che aveva immolato, purificando così il santuario dai suoi peccati, da quelli della sua casa e dalle iniquità, dalla trasgressioni e dalle colpe dei figli di Israele. Nessun uomo doveva essere nella tenda (cioè nel Santo che precedeva il Santo dei Santi) nel momento in cui il sommo sacerdote entrava in questo luogo elevato e terribile alla presenza di Dio, perché nessuno all’infuori di lui poteva varcare la soglia e anche lui stesso non poteva entrare che in quel momento. Là doveva anche bruciare l’incenso «affinché la nube velasse il trono del Verbo ed egli non morisse». Questo incontro solitario si svolgeva nel più profondo mistero. 

Il giorno della Riconciliazione nell’Antico Testamento è la figura del Venerdì Santo: l’agnello immolato per i peccati del popolo rappresenta l’Agnello immacolato, (anche il capro designato dalla sorte ad essere cacciato nel deserto era pure esso caricato dai peccati del popolo) e il grande sacerdote della stirpe di Aronne è la figura dell’Eterno Sacerdote. Cristo nell’ultima Cena, accettando di morire vittima, pregò come sommo sacerdote del Nuovo Testamento. Egli non doveva offrire un olocausto per sé perché Egli era senza peccato, né attendere l’ora prescritta dalla legge, né presentarsi nel Santo dei Santi del Tempio».(20) 

Questa visione di Gesù sacerdote permette a Edith di identificare nella persona stessa di Gesù, nella sua intimità non solo il Sommo sacerdote e la vittima del grande giorno del Yom Kippur, ma anche l’adempimento in Cristo della realtà misteriosa di quel luogo che era il Santo dei Santi, nel quale solo un giorno all’anno poteva entrare il Sommo sacerdote: 

«Egli è sempre e dovunque dinanzi alla faccia di Dio e la sua anima stessa è il Santo dei Santi perché non è solo dimora di Dio, ma è unita per essenza indissolubilmente a Dio. Dinanzi al Signore non doveva nascondersi in una nube protettrice di incenso: Egli guarda nel volto senza veli dell’Eterno senza aver nulla da temere, poiché lo sguardo del Padre non lo può annientare. Con questa preghiera Egli svela il segreto del sommo sacerdozio e tutti i suoi, udendolo parlare con il Padre nel santuario del suo cuore, possono imparare a parlare nel loro cuore con Dio. La preghiera sacerdotale del Salvatore svela il mistero della vita interiore: l’intima unità delle persone divine e l’inabitazione di Dio nell’anima. In queste segrete profondità, nel nascondimento e nel silenzio, si è preparata e compiuta l’opera della Redenzione e così sarà fino alla fine dei tempi, fino al momento in cui tutti saranno veramente una sola cosa in Dio».(21) 

Questa dimensione cristologica rimane in ogni preghiera della Chiesa che ha valore perché unita a Cristo, fatta per, in e con lui. E questa la formula cristologica che apre i chiude il libro di Edith Stein. 

4. Dimensione ecclesiale        

Tesi fondamentale della esposizione di quest’opera è il carattere ecclesiale della liturgia ma anche della preghiera della Chiesa in ogni sua espressione, anche personale, in virtù della comunione con Cristo e per la forza dello Spirito Santo nella Chiesa che è Corpo mistico di Cristo. È preghiera liturgica e sacramentale la celebrazione eucaristica e la liturgia della lode. 

La Chiesa diventa non solo il luogo della riunione di tutta l’umanità, ma anche di tutta la creazione, in una stupenda visione cosmica che pervade la contemplazione di Edith Stein: 

«Gli inni del mattino incitano tutta la creazione ad unirsi nella lode del Signore: i monti e le colline, i fiumi e i torrenti, i mari e le terre e tutto ciò che li abita, le nubi e i venti, la pioggia e la neve, tutti i popoli della terra, tutte le classi e le razze umane e infine anche gli abitanti del cielo, gli angeli e i santi. Anch’essi partecipano alla grande eucarestia della creazione o meglio, siamo noi che ci dobbiamo unire, mediante la nostra liturgia, alla loro lode, noi, cioè non solo i religiosi, la cui vocazione è la lode solenne di Dio, ma tutto il popolo cristiano. Quando, nelle feste solenni, i fedeli affluiscono nelle cattedrali o nelle chiese abbaziali, quando partecipano attivamente e con gioia alle forme rinnovate della liturgia, dimostrano che la loro vocazione è la lode divina. La unità liturgica della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra, che rendono grazie a Dio «per Cristo», trova la sua più forte espressione nel Prefazio e nel Sanctus della Messa. La liturgia non lascia alcun dubbio sul fatto che noi non siamo ancora cittadini della Gerusalemme celeste, ma pellegrini in cammino verso l’eterna patria. Dobbiamo ancora prepararci prima di aver l’ardire di alzare gli occhi verso le vette luminose e di unire la nostra voce ai cori celesti nel Sanctus, Sanctus, Sanctus».(22) 

Ma la sua convinzione che diventa presa di posizione, proposta e difesa con passione, è il carattere ecclesiale di ogni preghiera autentica, in virtù di quella costante esperienza della storia della salvezza che è appunto l’interiorità, nella quale si preparano ed avvengono i grandi interventi di Dio. Edith ci ha parlato della preghiera di Gesù, ma ricorda anche altri episodi evangelici, come il dialogo di Maria che prepara l’incarnazione, la preghiera della Chiesa che precede la Pentecoste, l’inizio del ministero degli apostoli, fino alla continuità di questa costante nella vita dei santi e delle Sante come Brigida, Caterina, Teresa: 

«La Redenzione fu decisa nell’eterno silenzio della vita divina e nel nascondimento della tranquilla dimora di Nazareth, la virtù dello Spirito Santo adombrò la Vergine mentre pregava, sola, e operò l’Incarnazione del Redentore. Riunita intorno alla Vergine che prega in silenzio, la Chiesa nascente attese la nuova effusione di Spirito che le era stata promessa per intensificare la sua luce interiore e rendere feconda la sua azione. Nella notte della cecità, che Dio aveva fatta scendere sui suoi occhi, Saulo attendeva in preghiera solitaria la risposta del Signore alla sua domanda: «Che vuoi ch’io faccia?», e Pietro si preparò alla sua missione tra i pagani pregando in solitudine. E così nei secoli, gli avvenimenti visibili della storia della Chiesa, si preparano nel dialogo silenzioso delle anime consacrate con il loro Signore. La Vergine, che custodiva nel suo cuore ogni parola che Dio le rivolgeva, è il modello di quelle anime attente in cui rivive la preghiera di Gesù sommo sacerdote, e quelle anime che, dietro il suo esempio, si danno alla contemplazione della vita e della passione di Cristo, vengono scelte di preferenza dal Signore per essere gli strumenti delle sue grandi opere nella Chiesa, come una santa Brigida e una santa Caterina da Siena. Quando santa Teresa, la grande riformatrice del suo Ordine al tempo della grande apostasia, volle venire in aiuto alla Chiesa, ne vide il mezzo nel rinnovamento della vita interiore».(23) 

Questa dimensione, così viva, di una Chiesa che diventa preghiera, suggerisce alla nostra autrice la reciprocità dell’altro stupendo principio che forma parte ormai delle convinzioni più intime della sua vocazione carmelitana: «Ogni autentica preghiera è preghiera della Chiesa». 

Edith lo afferma con passione, e con convinzione elabora una sintetica teologia: 

«Nel nascondimento e nel silenzio si compie l’opera della Redenzione, nel silenzioso colloquio del cuore con Dio si preparano le pietre vive, con le quali viene innalzato il regno di Dio, e si forgiano gli strumenti scelti che cooperano alla sua costruzione. Il mistico fiume che attraversa i secoli non è un braccio staccato che si separi dalla vita di orazione della Chiesa ma ne è la vita più intima. Se esso rompe le forme tradizionali è perché in esso vive lo Spirito che soffia dove vuole, che ha creato tutte le forme tradizionali e che ne crea continuamente di nuove. Senza di Lui non vi sarebbe né liturgia né Chiesa. Non era forse l’anima del Salmista reale un’arpa le cui corde cantavano sotto il leggero soffio dello Spirito Santo? Dal cuore colmo di gioia della Vergine piena di grazia sgorgò l’inno del Magnificat; il canto profetico del Benedictus aprì le labbra diventate mute del vecchio sacerdote, quando l’annuncio segreto dell’Angelo divenne realtà. Ciò che sale da un cuore pieno di Spirito Santo e si esprime in cantici e inni, si trasmette di bocca in bocca: spetta all’Ufficio divino far sì che risuoni di generazione in generazione. Il mistico fiume così forma l’inno di lode sempre crescente alla Trinità, al Creatore, al Redentore, al Consolatore. Ne consegue che non si può opporre la preghiera interiore, libera da ogni forma tradizionale, «pietà soggettiva», alla liturgia, che è la «preghiera oggettiva» della Chiesa. Ogni autentica preghiera è preghiera della Chiesa: mediante ogni preghiera sincera qualcosa avviene nella Chiesa ed è la Chiesa stessa che prega perché è lo Spirito Santo, che in essa vive, che in ogni singola anima «prega per noi con inenarrabili sospiri». Questa è la vera preghiera poiché nessuno può dire «Signore Gesù» se non nello Spirito Santo. Che cosa sarebbe la preghiera della Chiesa se non fosse l’abbandono di quelli che amano veramente, a Dio, che è Amore?».(24) 

Tutto parte dalla convinzione dell’indissolubile comunione della persona orante con Cristo, come membro del suo corpo, della valenza dell’atto di adorazione alla Trinità (al Creatore, al Redentore, al Consolatore). Ma Edith attribuisce in modo specifico, come abbiamo ascoltato, all’azione dello Spirito Santo, senza il quale non vi è preghiera né Chiesa, la piena ecclesialità di ogni autentica preghiera personale. Per lei è inseparabile l’essere persona-Chiesa nello Spirito Santo, dal quale dipende anche il progresso mutuo nella santità di tutti i membri del Corpo mistico di Cristo. 

A rendere pienamente ecclesiale la preghiera personale è lo stesso Cristo che ci nutre ed edifica Chiesa, suo Corpo mistico, mediante i sacramenti. In una stupenda sintesi di spiritualità sacramentale Edith Stein descrive le tappe della piena iniziazione cristiana, fondamento della vita spirituale di ogni cristiano nella Chiesa: 

«Cristo ci introduce in quella vita interiore mediante la quale raggiungiamo i cori degli spiriti beati che cantano l’eterno Sanctus. Il suo sangue è come il velo attraverso il quale entriamo nel Santo dei Santi della vita divina. Nel Battesimo e nella Confessione ci purifica dai nostri peccati, apre i nostri occhi alla luce eterna, le nostre orecchie alla parola divina, le nostre labbra alla lode, alla confessione delle colpe, alla preghiera di domanda e di ringraziamento, che sotto forme diverse sono tutte adorazione, cioè omaggio della creatura al Dio onnipotente e infinitamente buono. Nel sacramento della Cresima questo sangue elegge e fortifica il soldato di Cristo perché professi lealmente la sua fede, ma più che in tutti i sacramenti è nel sacramento in cui Gesù stesso è presente che noi diventiamo membra del suo corpo. Quando partecipiamo al santo Sacrificio, alla santa Comunione, ci nutriamo della carne e del sangue di Gesù, diventiamo il suo corpo e il suo sangue. Solo nella misura in cui siamo membri del suo corpo può il suo Spirito vivificarci e regnare in noi… È lo Spirito che vivifica, poiché lo Spirito fa vive le membra: fa vive solo quelle membra che trova inserite nel corpo, nel quale lo Spirito vive».(25) 

La Chiesa diventa corpo di Cristo mediante l’Eucaristia, banchetto e sacrificio. Ma la preghiera che scaturisce dai membri della Chiesa è preghiera ecclesiale, compiuta nello Spirito, assunta nella mediazione di Cristo. 

Anzi molte di queste preghiere scaturiscono da persone-Chiesa che nella loro comunione intima con il Signore e nel loro impersonare la Chiesa, sono diventate come «il cuore della Chiesa». Lo afferma con forza Edith, avendo senz’altro nella mente la figura di Teresa di Lisieux della quale non cita il nome, ma riprende le parole: «Le anime che lo hanno raggiunto (il grado supremo della preghiera) sono veramente il cuore della Chiesa e in esse vive l’amore sacerdotale di Gesù. Nascoste con Cristo in Dio non possono che irradiare in altri cuori l’amore divino di cui sono ripiene e cooperare alla perfezione di tutti gli uomini nell’unione in Dio, che fu ed è il grande desiderio di Gesù».(26) 

In modo speciale nella vita contemplativa, nei santuari della preghiera nei quali scorre il fiume della vita pulsa il cuore della Chiesa orante: «questi focolari di vita interiore, dove le anime, in silenzio e in solitudine, possono stare alla presenza di Dio per essere nel cuore della Chiesa l’amore che tutto vivifica».(27) 

5. L’ispirazione carmelitano-teresiana       

L’ebraismo delle origini, il limpido cristo-centrismo della liturgia e della preghiera, il carattere ecclesiale, si completano e si fondono in Teresa Benedetta della Croce con la sua vocazione alla preghiera nel Carmelo Teresiano. 

Soprattutto il secondo ed il terzo capitolo dell’opuscolo rivelano l’anima carmelitana di Edith Stein e la sua appassionata apologia circa il valore della preghiera personale, della vocazione contemplativa, impastata di liturgia e di ore di preghiera silenziosa. Forse è arrivata anche al Carmelo di Colonia una serie di opinioni di liturgisti del tempo che svalutavano la preghiera personale per esaltare la preghiera liturgica, o che la relegavano alla categoria di pietà soggettiva. Edith Stein reagisce con nobiltà e con naturalità. E il titolo del secondo capitoletto evidenzia una sua posizione teologica: Il dialogo solitario con Dio come preghiera della Chiesa

L’apologia del valore della preghiera silenziosa parte da lontano, dalla preghiera solitaria di Gesù, dagli eventi della storia della salvezza che si consumano nell’intimità del cuore, ma arrivano fino all’ispirazione originale, personale ed ecclesiale, della Madre, Santa Teresa di Gesù, della quale Edith ricorda la tesi fondamentalmente ecclesiale che ispira nel secolo XVI la fondazione del Carmelo teresiano: essere contemplative al servizio della Chiesa, con una lunga citazione del cap. 3 del Cammino di Perfezione

Vi aggiunge anche l’esempio di Antonietta du Geseur, che ha vissuto nel mondo la preghiera contemplativa. Ma ricorda pure in nota la dottrina di Elisabetta della Trinità con la sua apologia dell’adorazione interiore.(28) 

Non nomina esplicitamente Teresa del Bambino Gesù; ma come non riconoscere il volto della Carmelitana di Lisieux là dove Edith parla di quelle anime che nel cuore della Chiesa sono l’amore?(29) 

Senza voler fare una eccessiva apologia pro vita sua, la vita contemplativa di una Carmelitana, Edith sottolinea spesso il valore dei santuari della liturgia e della preghiera contemplativa, la preziosità della vocazione dei monaci e delle monache, senza dimenticare la presenza e il valore della preghiera del popolo: Essi, scrive, sono icone viventi dei cherubini del tempio al cospetto di Dio: 

«Creati dalla mano di artisti anche i cherubini non mancano e in forme visibili vegliano ai lati del Santissimo, e i monaci, loro «immagini viventi» circondano l’altare del sacrificio e fanno in modo che la lode di Dio continui sempre sulla terra come nel cielo. Le preghiere solenni che essi, portavoce designati dalla Chiesa, recitano, accompagnano il santo Sacrificio, circondano, avvolgono, santificano tutto il «lavoro della giornata» così che dalla preghiera e dal lavoro nasca un solo opus Dei, una sola «liturgia». Edith ricorda la partecipazione dei religiosi alla liturgia nella comunione con il popolo di Dio. «Siamo noi, scrive, che ci dobbiamo unire, mediante la nostra liturgia, alla loro lode (la lode di tutte le creature), noi, cioè non solo i religiosi, la cui vocazione è la lode solenne di Dio, ma tutto il popolo cristiano».(30) 

Senza nominare i Carmeli teresiani, ma certamente pensando ad essi e alla vocazione della vita contemplativa al servizio della Chiesa, secondo il carisma teresiano, Edith ricorda: 

«Chi si dona completamente al Signore viene scelto da Lui come strumento per la costruzione del suo regno. Egli solo sa quanto la preghiera di santa Teresa e delle sue figlie contribuì a proteggere la Spagna dall’eresia, quale forza spiegò nelle lotte ardenti delle guerre di religione sul suolo di Francia, dei Paesi Bassi, della Germania. La storia ufficiale non parla di queste forze invisibili e incalcolabili, ma la fede del popolo credente e il giudizio attento e vigile della Chiesa le conosce, e il nostro tempo sempre più si vede costretto, quando ogni altra cosa viene a mancare, a sperare l’ultima salvezza da queste sorgenti nascoste».(31) 

Ma senza nulla sminuire del carattere oggettivo della preghiera pensa alla vita contemplativa e ai santuari del silenzio e della preghiera come a fiumi nascosti che vivificano la vita della Chiesa, che segnalano a loro modo la necessità di vivificare la liturgia con una intensa preghiera personale: 

«Nel nascondimento e nel silenzio si compie l’opera della Redenzione, nel silenzioso colloquio del cuore con Dio si preparano le pietre vive, con le quali viene innalzato il regno di Dio, e si forgiano gli strumenti scelti che cooperano alla sua costruzione. Il mistico fiume che attraversa i secoli non è un braccio staccato che si separi dalla vita di orazione della Chiesa ma ne è la vita più intima».(32) 

Nella preghiera contemplativa e nella dedicazione ad essa Edith vede come un prolungamento del sacerdozio orante di Cristo, una particolare partecipazione alla dimensione sacerdotale della preghiera di Cristo qui sulla terra. 

«Che cosa sarebbe la preghiera della Chiesa se non fosse l’abbandono di quelli che amano veramente, a Dio, che è Amore? Il dono totale del nostro cuore a Dio e il dono che Egli ci dà in cambio, la completa ed eterna unione, è lo stato più alto che ci sia accessibile, il grado supremo della preghiera. Le anime che lo hanno raggiunto sono veramente il cuore della Chiesa e in esse vive l’amore sacerdotale di Gesù. Nascoste con Cristo in Dio non possono che irradiare in altri cuori l’amore divino di cui sono ripiene e cooperare alla perfezione di tutti gli uomini nell’unione in Dio, che fu ed è il grande desiderio di Gesù».(33) 

La grande liturgia della Chiesa si prolunga nel silenzio e nella preghiera di cui si riempiono i cuori dei contemplativi che assicurano la «laus perennis» e la perenne intercessione della Chiesa per il mondo: 

«La solenne lode divina deve avere i suoi santuari sulla terra, per essere celebrata con tutta la perfezione di cui gli uomini sono capaci. Da questi santuari essa può in nome di tutta la Chiesa salire al cielo, agire su tutti i suoi membri, svegliare la loro vita interiore e stimolare il loro sforzo fraterno. Ma perché questo canto di lode sia vivificato dall’interno è necessario che in questi luoghi di preghiera vi siano tempi riservati all’approfondimento spirituale, altrimenti questa lode degenererebbe in un semplice balbettìo privo di vita. Il pericolo viene evitato grazie a questi focolari di vita interiore, dove le anime, in silenzio e in solitudine, possono stare alla presenza di Dio per essere nel cuore della Chiesa l’amore che tutto vivifica».(34) 

Preghiera personale e liturgica vanno insieme, liturgia e contemplazione si postulano vicendevolmente, come si postulano preghiera e vita, parola ascoltata, pregata, vissuta. 

«Noi dobbiamo in silenzio ascoltare per ore e lasciare agire la parola fino a che essa ci spinge a lodare Dio nella preghiera e nel lavoro. Le forme tradizionali ci sono necessarie e noi dobbiamo partecipare al culto pubblico, come ce lo ordina la Chiesa, perché la nostra vita interiore si desti, rimanga sul retto sentiero e trovi l’espressione che le conviene».(35) 

In fondo ogni preghiera ed ogni liturgia realizzano le petizioni del Padre nostro, petizioni che con un tocco originale Edith ripropone in questo breve testo rileggendo il Padre nostro al rovescio, dalla fine all’inizio: 

«Tutto ciò di cui abbisogniamo per venire accolti nella comunione degli spiriti beati è compendiato nelle sette domande del Padre nostro che il Signore non ha dette per sé, ma ha insegnate a noi. Noi lo diciamo prima della santa Comunione con retta intenzione, essa esaudisce ogni nostra domanda: ci libera dal male perché ci purifica dalla colpa e ci dà la pace del cuore che toglie l’aculeo a tutti gli altri mali, ci porta il perdono di tutte le colpe passate e ci fortifica contro le tentazioni. Il pane di vita che ci è quotidianamente necessario per crescere nella vita eterna rende la nostra volontà uno strumento docile della volontà divina, instaura in noi il regno di Dio e ci dà labbra e cuore puri per glorificare il suo santo nome».(36) 

Conclusione     

Nella concisione di quest’opera, Edith Stein appare come una vera maestra ed un modello di spiritualità liturgica, nella genialità con la quale coglie nel suo tempo il valore della preghiera ecclesiale e la doverosa armonia con la preghiera personale e con la vita contemplativa. 

Il suo messaggio teologico e liturgico è rimasto quasi nascosto fra le sue opere. Ma quando dopo il Vaticano II il magistero ecclesiale ha messo in luce il valore della liturgia e l’esigenza della preghiera personale e della contemplazione, i testi di Edith sono apparsi veramente profetici. Quando negli anni settanta è stata rinnovata la liturgia delle ore e sono stati emanati due documenti di rilievo come la Costituzione apostolica Laudis Canticum di Paolo VI e l’Istituzione generale della Liturgia delle ore, alcuni liturgisti non hanno avuto difficoltà nell’accostare alcuni dei testi programmatici a quanto la nostra monaca carmelitana aveva scritto già nel 1936.(37) 

Paolo VI nella Costituzione Laudis Canticum del 1 novembre 1970, metteva in luce la necessità di superare ogni opposizione fra preghiera della Chiesa e preghiera privata, raccogliendo forse l’eco lontana della apologia di Edith Stein. La Istituzione Generale della liturgia delle ore nel n. 4 presentava la preghiera di Gesù con parole molto simili a quelle usate da Edith nel suo opuscolo. E nel n. 9, affermava il valore della preghiera personale, fatta nella propria stanza, come vera ed autentica preghiera ecclesiale in quanto «fatta dai membri della Chiesa, per Cristo nello Spirito Santo». Oggi la coincidenza della dottrina di Edith Stein con il pensiero della Chiesa rende più attuale questo frammento della sua dottrina. A buon diritto dunque, Edith emerge, fra l’altro, fra i maestri della spiritualità liturgica del periodo iniziale del rinnovamento liturgico in Germania. 

Le pagine della sua opera Das Gebet der Kirche, oltre ad illuminare la Chiesa con la sua teologia, ci permettono di cogliere l’anima di Edith Stein durante tutta la sua esistenza cristiana, nel suo vivere immedesimata come Ecclesia orans con la preghiera della Chiesa, liturgica e personale, fino al culmine del suo olocausto che ella ha certamente vissuto ed offerto come Chiesa al Padre nell’unità dello Spirito Santo per Cristo, con Cristo ed in Cristo, nel giorno santo della sua offerta, il Yom Kippur della sua oblazione sacrificale e sacerdotale, come ebrea, cristiana e carmelitana.
____________________________

1. Edito in E. STEIN, TERESIA BENEDICTA A CRUCE O.C.D., Verborgenes Leben. Hagiographische Essays, Meditationen, geistliche Texte, Edith Steins Werke, Band XI, Uitgeverij “De Maas & Waler”, Druten – Verlage Herder, Freiburg -Basel – Wien, 1987, pp. 10-25. La descrizione degli originali: Ibidem, XVII-XVIII. Seguo la versione italiana EDITH STEIN, La preghiera della Chiesa, Brescia, Morcelliana, 1987, anche se non è sempre affidabile, avendo presente l’originale tedesco, citato con la sigla GDK e la pagina che corrisponde al volume sopra descritto.

2. Cfr. TERESIA RENATA, Edith Stein. Lebensbild einer Philosophin und Karmelitin, Nürenberg 1954, p. 133.

3. Citato da TERESIA RENATA DE SPIRITU SANCTO, Edith Stein, Morcelliana, 1952, p. 132-133.

4. Fa notare ad esempio: «Le dimensioni di questo saggio mi impediscono di citare per intero la preghiera sacerdotale di Gesù. Prego il lettore di leggere il Vangelo di san Giovanni al cap. 17». La preghiera della Chiesa p. 23, nota 16; GDK,18.

5. La preghiera, p. 15. In realtà, con parole precise E. Stein fa riferimento alle forme del rinnovamento liuturgico in atto: «”Volkschoralamt” und in den neuen “volksliturgischen” Formen»; GDK, 14.

6. Ein Wort zur liturgischen Frage, Magonza 1940. Pubblicata anche di recente in lingua spagnola in «Cuadernos Phase» n. 64, Centre de Pastoral litúrgica, Barcelona 1965, pp. 19-44. Una breve sintesi sulla situazione creatasi in Germania in C. Vagaggini, Orientamenti e problemi di spiritualità liturgica nella letteratura degli ultimi quarant’anni, AA. VV., Problemi e orientamenti di spiritualità monastica, biblica e liturgica, Roma, Edizioni Paoline, 1962, pp. 322-327.

7. La preghiera, p. 30; GDK, 22. Questa distinzione si trova nell’opera classica di I. Herwegen, Antike, Germanentum und Christentum, Salzburg 1932; cfr. C. Vagaggini, a.c., pp. 522-524.

8. La preghiera, pp. 7-8; GDK, 10.

9. La preghiera, p. 9: GDK, 10.

10. Su questo mondo della preghiera ebraica ci si può ispirare al libro di ELIE MUNK, Il libro delle preghiere, Vol. I. I giorni feriali, Roma 1992.

11. La preghiera, p. 9; GDK, 10-11.

12. La preghiera, pp. 11-12; GDK, 12.

13. La preghiera, p. 11; GDK, 12.

14. La preghiera, p. 19; GDK, 15.

15. La preghiera, pp. 12-13; GDK, 12-13.

16. La preghiera, p. 14; GDK, 14-15.

17. Il Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1093-1696, ha voluto mettere in luce questa continuità fra la liturgia ebraica e la liturgia cristiana.

18. La preghiera, pp. 19-20; GDK, 15-16.

19. La preghiera, pp. 20-21; GDK, 16-17.

20.
La preghiera, p. 21-22; GDK, 16-17.

21. La preghiera, pp. 22-23; GDK, 17-18.

22. La preghiera, pp. 15-16; GDK 14-15.

23. La preghiera, pp. 23-24; GDK, 18-19.

24. La preghiera, pp. 29-30; GDK, 21-22.

25. La preghiera, pp. 33-34; GDK, 24.

26. La preghiera, pp. 30-31; GDK, 22. Edith ha messo in corsivo l’espressione: Herz der Kirche.

27. La preghiera, p. 33; GDK, 24.

28. Nella nota 25 ricorda la famosa preghiera di Elisabetta di Dijon: Dio mio Trinità che adoro, commentata da D. E. Vandeur; La preghiera, p. 33; GDK, 24.

29. La preghiera,pp. 30-31.33; GDK, 22.24.

30. La preghiera, pp. 14-15; GDK, 13-14.

31. La preghiera, p. 28; GDK, 21.

32. La preghiera, p. 29: GDK, 21.

33. La preghiera, pp. 30-31; GDK, 22.

34. La preghiera, pp. 32-33; GDK, 23-24.

35. La preghiera, p. 32; GDK, 23.

36. La preghiera, p. 16; GDK, 15.

37. Sull’attualità del pensiero liturgico di E. Stein cfr., fra l’altro: E. GARCIA ROJO, Vivencia y aportación litúrgica de Edith Stein, in Ephemerides Carmeliticae 30 (1979) pp. 69-97; J. CASTELLANO, La oración de la Iglesia. Testimonio litúrgico de Edith Stein, en Liturgia y espiritualidad 27 (1996) pp. 217-224.

Posted in .